Licenziamento del lavoratore in prova
La discrezionalità del recesso del datore di lavoro nel caso di lavoratore in prova
La Cassazione, con la sentenza n. 1180 del 18 gennaio 2017, si è espressa in ordine al licenziamento del lavoratore che abbia positivamente superato il periodo di prova. Nel riformare la pronuncia di merito, la Suprema Corte ha sottolineato che il potere discrezionale del datore di lavoro ai fini del recesso nel periodo di prova non è illimitato: pur ricordando che l’esito negativo del periodo di prova non deve essere motivato dal datore di lavoro, la Cassazione ha ribadito la nullità del licenziamento qualora il lavoratore riesca a dimostrare il positivo superamento del periodo di prova e ad imputare a motivo diverso, assimilabile a motivo illecito, la decisione del datore di lavoro di recedere dal rapporto stesso.
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INPS e Pensioni
L’INPS può rettificare le pensioni, ma non recuperare le somme già corrisposte
La Cassazione, con sentenza n. 482/2017, ha finalmente chiarito che l’INPS non può pretendere la restituzione delle pensione maggiorate corrisposte ai pensionati. La Suprema Corte autorizza l’ente erogatore a rettificare in ogni momento qualsivoglia errore commesso in sede di attribuzione o erogazione della pensione, senza tuttavia ammettere il recupero delle somme già corrisposte. Infatti, il recupero di dette somme è ammissibile solo se causato dal dolo del beneficiario della pensione.
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Focus: La contrattazione di prossimità
Articolo 8, legge 148/2011: luci e ombre
L’esigenza di flessibilizzare il mercato e le regole del lavoro per far fronte alla profonda crisi economica che ha travolto il nostro Paese nell’estate del 2011, ha indotto il Legislatore ad introdurre nell’ordinamento italiano la contrattazione di prossimità, disciplinata dall’art. 8 l. n. 148/2011.
In particolare, infatti, al fine di rilanciare l’economia e la competitività del nostro sistema produttivo, l’art. 8, comma 2 bis, l. n. 148/2011 consente alla contrattazione aziendale o territoriale di derogare in determinate materie alle norme di legge e dei contratti collettivi, affidando alle organizzazioni sindacali la facoltà di interloquire con le imprese al fine di raggiungere intese capaci di tutelare sia i lavoratori che le esigenze delle aziende.
La derogabilità alle disposizioni di legge è possibile purché:
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partecipino alla sottoscrizione soggetti collettivi qualificati;
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sia la maggioranza ad approvare la deroga;
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la deroga sia motivata da esigenze specifiche di particolare rilievo sociale;
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si rifletta su specifici istituti e materie
Il rispetto di tali “limiti interni” dovrebbe consentire di migliorare la qualità dei contratti di lavoro, di incrementare l’occupazione, di far emergere il lavoro irregolare, di gestire eventuali crisi aziendali e occupazionali, di incrementare competitività, salario, investimenti e avvio di nuove attività.
Fermo restando il rispetto di tali condizioni, lo stesso art. 8, comma 2 bis, impone altresì un “limite esterno”: vincola espressamente la derogabilità al rispetto della Costituzione, delle normative comunitarie e delle convenzioni internazionali in materia di lavoro.
Uno degli aspetti più innovativi e al contempo più critici introdotti dal disposto dell’art. 8, comma 2 bis, l. 148/2011, è il potere attribuito alla contrattazione di secondo livello di derogare, nell’ambito di specifiche materie, sia alla legge che ai CCNL, consentendo, in maniera rigidamente circoscritta, addirittura derogare “in pejus”.
I risvolti pratici di tali accordi potrebbero interessare diversi profili del rapporto di lavoro tra cui: la durata del periodo di prova e dell’apprendistato prima dell’assunzione definitiva, i contratti a termine, l’introduzione di nuove ipotesi di somministrazione di lavoro a tempo indeterminato, la disciplina dell’orario di lavoro e del licenziamento…
Nonostante il timore che uno strumento giuridico di tale portata potesse incidere significativamente sui delicati rapporti tra lavoratori e aziende (si pensi, tra gli altri, alla garanzia reintegratoria in caso di licenziamento illegittimo), non sembra realistico pensare che una più ampia flessibilità di contrattazione tra parti sociali consapevoli e responsabili possa intaccare tutele storicamente acquisite, essendo al contrario un’occasione di scambio tra vantaggi occupazionali e una maggior flessibilità capace di integrale il CCNL per meglio rispondere ai bisogni della/e azienda/e di una determinata area territoriale.
Ogni dubbio sulla legittimità costituzionale dell’art. 8 l. n. 148/2011 è stato fugato dalla pronuncia della Corte Costituzionale che, con la sentenza n. 221/2012, ha stabilito che non è fondata la questione di legittimità costituzionale sollevata in relazione a tale norma. Essa non contrasta, infatti, con gli artt. 39, 117, 118 Cost, (come asserito dalla Regione Toscana, promotrice della questione) poiché l’ambito delle intese previste dall’art. 8 l. n. 418/2011 non è illimitato, bensì tassativo e circoscritto all’organizzazione del lavoro e della produzione. La Corte ha chiarito che anche l’effetto derogatorio previsto dal comma 2 bis rispetta i parametri costituzionali: esso infatti, oltre ad operare nei soli ambiti previsti dal comma 2 ed avendo carattere eccezionale, non si applica al di fuori dei casi e i tempi dalla stessa considerati.
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Licenziamento e maternità
Tutela della lavoratrice madre fino al compimento del primo anno di età del figlio
Con la sentenza n. 475/2016 depositata l’11 gennaio 2017, la Cassazione ha rinnovato il divieto per il datore di lavoro di licenziare la lavoratrice madre dall’inizio della gravidanza sino al compimento di un anno di età del bambino, se non per colpa grave (da accertarsi nelle opportune sedi) della lavoratrice.
Qualora manchi tale colpa, il rapporto si considera come “mai interrotto” e, pertanto, alla lavoratrice dovrà essere corriposto lo stipendio “dal giorno del licenziamento sino alla rieffettiva ammissione in servizio”.
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Licenziamento per giustificato motivo oggettivo
Licenziamento sì se per incrementare gli utili
Con la sentenza n. 25201/2016 la Suprema Corte ha stabilito che, ai fini della legittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, l’andamento economico negativo dell’azienda non costituisce un presupposto fattuale al licenziamento che il datore di lavoro è tenuto a provare, ma è sufficiente che la migliore efficienza gestionale o l’incremento della redditività d’impresa siano la diretta conseguenza del mutamento dell’assetto organizzativo dell’azienda, realizzato attraverso la soppressione della posizione lavorativa individuata. Tale pronuncia della Cassazione sembra così legittimare il licenziamento per giustificato motivo oggettivo nei casi in cui vi sia l’intenzione del datore di lavoro di aumentare gli utili e ove la motivazione addotta al licenziamento non sia l’esigenza di far fronte ad uno stato di crisi ovvero a difficoltà economiche.
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D.L. 59/16 e procedure
Focus novità per fallimento e concordato
Il Decreto legge 3 maggio 2016, n. 59 ha apportato alcune modifiche che interessano sia la procedura fallimentare che quella concordataria.
ART. 40 L.F. (Nomina del comitato)
Viene inserito in questo articolo un quinto comma che stabilisce che la costituzione del comitato dei creditori è da considerare simultanea all’accettazione, che può avvenire anche per via telematica, della nomina da parte dei suoi componenti. Non sarà pertanto necessaria alcuna convocazione dinanzi al curatore, né attendere che venga eletto il presidente del comitato stesso.
ART. 95 L.F. (Progetto di stato passivo e udienza di discussione)
L’inserimento della possibilità di svolgere l’udienza di verifica dei crediti concorsuali e della formazione dello stato passivo anche per via telematica permetterà, con la postilla che venga garantito il contraddittorio e rispettata la partecipazione dei creditori, di ridurre l’attesa per il riparto ai creditori. Nel precisare che sarà possibile utilizzare le strutture informatiche messe a disposizione della procedura da soggetti terzi, il legislatore sembra aver inteso che, al fine di evitare un aggravio dei costi conseguenti, possano essere autorizzati direttamente gli ordini professionali ovvero fondazioni terze alla fornitura dei programmi per il supporto informatico.
ART. 104 ter L.F. (Programma di liquidazione)
All’articolo 104 ter L.F. viene inserita quale ulteriore giusta causa di revoca del curatore il mancato rispetto, in presenza di somme disponibili per la ripartizione, della presentazione del prospetto delle somme disponibili e un prospetto di ripartizioni delle medesime ogni quattro mesi dalla data del decreto previsto dall’art. 97 o nel diverso termine stabilito dal giudice delegato. L’obiettivo del legislatore, coerente con le recenti modifiche apportate dal D.L. 83/2015 che stabiliscono un limite ai creditori di 180 giorni dalla redazione dell’inventario per la presentazione del programma di liquidazione, sembra essere proprio quello di sanzionare pesantemente quei curatori che non procedano tempestivamente alla distribuzione delle somme ai creditori concorsuali.
ART. 163 L.F. (Ammissione alla procedura e proposte concorrenti)
Anche in questo caso, il tribunale potrà stabilire che “l’adunanza sia svolta in via telematica con modalità idonee a salvaguardare il contraddittorio e l’effettiva partecipazione dei creditori, anche utilizzando le strutture informatiche messe a disposizione della procedura da soggetti terzi”.
ART. 175 L.F. (Discussione della proposta di concordato)
In tema di concordato preventivo il legislatore ha espressamente previsto la possibilità di svolgere in via telematica l’adunanza dei creditori, in cui i membri sono chiamati ad esprimere il proprio voto sulla proposta concordataria. Anche se in concreto non è frequente che l’adunanza dei creditori si protragga per più udienze, l’intento che pare aver mosso il legislatore sembrerebbe essere sempre il medesimo, e cioè un notevole snellimento dei tempi della procedura a vantaggio degli interessi creditizi.
ART. 155-sexies – Disposizioni di attuazione del codice di procedura civile (Ulteriori casi di applicazione delle disposizioni per la ricerca con modalità telematiche dei beni da pignorare)
Al fine di dotare il curatore fallimentare, il commissario e il liquidatore giudiziale di poteri di indagine più ampi e di una maggiore autonomia il legislatore ha legittimato gli organi delle procedure concorsuali ad avvalersi direttamente e personalmente delle informazioni patrimoniali contenute nelle banche dati riguardanti i soggetti verso cui la procedura dimostri di vantare un credito, previa necessaria autorizzazione del giudice delegato, ma anche in assenza di un titolo esecutivo.
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Trasferimento della sede all’estero e fallimento
Solo l’effettiva ricollocazione della società all’estero salva dal fallimento
L’articolo 9 L.F., al primo comma, detta, in materia di competenza, il seguente principio: “il fallimento è dichiarato dal tribunale del luogo dove l’imprenditore ha la sede principale dell’impresa. Il trasferimento della sede intervenuto nell’anno antecedente all’esercizio dell’iniziativa per la dichiarazione di fallimento non rileva ai fini della competenza”.
Il nostro legislatore ha previsto espressamente tale meccanismo per dissuadere operazioni non genuine che utilizzino il trasferimento della sede legale all’estero come escamotage per evitare il fallimento della propria impresa. Se la circolazione delle imprese, specialmente in ambito comunitario, é pacificamente consentito, il criterio di valutazione sviluppato dalla giurisprudenza per distinguere manovre elusive da rilocazioni fondate su un effettivo progetto si fonda sull’analisi dell’effettività del trasferimento dell’impresa.
Con sentenza del 17 febbraio 2016 n. 3059, la Corte di Cassazione a Sezioni Unite ha confermato la revoca, sulla quale si era espressa la Corte d’Appello competente, del fallimento di una srl dichiarata fallita dal giudice di prime cure pur avendo la stessa trasferito ante dichiarazione di fallimento la propria sede legale all’estero.
La strategia difensiva utilizzata dalla Srl ha voluto sottolineare come il tribunale italiano abbia dichiarato il fallimento omettendo tuttavia una preliminare verifica riguardo l’effettivo trasferimento dell’attività nel paese scelto per il trasferimento della sede legale. Detta verifica é essenziale.
Questa sentenza è particolarmente importante perché da un lato attribuisce la giurisdizione al giudice italiano in merito all’istanza di fallimento presentata nei confronti di una società che, sopraffatta dalla crisi, abbia trasferito all’estero la propria sede legale. Tuttavia, tale competenza é affermata solo a condizione che non si sia in presenza di un effettivo trasferimento dell’attività e , in particolare, della direzione e amministrazione degli affari dell’impresa originaria.
In linea con tale principio, la Suprema Corte con la sentenza oggetto di commento, ha affermato anche, come logico corollario, di non essere competente a dichiarare il fallimento di una quando il trasferimento dell’attività d’impresa sia stato effettivo e tale effettività si evinca dall’oggettività dei fatti.
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Fallimento, transazione e bancarotta
La transazione con la curatela costituisce una attenuante di cui il giudice penale deve tenere conto.
La Suprema Corte, con la sentenza n. 8644/2016, sembra aver premiato la tenacia dell’amministratore di una srl, poi dichiarata fallita, sul quale pendeva un procedimento con l’accusa di bancarotta fraudolenta patrimoniale.
L’amministratore aveva visto disattese le proprie aspettative sia nel primo che nel secondo grado di giudizio, ma la Cassazione ha ribaltato il verdetto finale.
La motivazione? L’imputato aveva raggiunto un accordo transattivo con la Curatela con cui si accollava parte del danno arrecato alla fallita.
Tale ammissione di responsabilità ha consentito all’uomo di poter chiedere al giudice penale la riduzione della pena.
Il giudice di prime cure ha respinto la richiesta dell’uomo che, avanti alla corte d’appello, ha impugnato la sentenza, rilevando, altresì, l’eccessività della pena irrogatagli.
La Corte d’appello, ribadisce l’orientamento manifestato dal Tribunale, stavolta perché la riduzione della pena sarebbe stata richiesta in virtù di un generico riferimento, peraltro non documentato, ad una transazione raggiunta dall’uomo con il Fallimento.
La Suprema Corte ha annullato la sentenza e ha disposto la trasmissione degli atti alla Corte d’appello intimandola ad uniformarsi all’indirizzo per cui non è da ritenere motivato il rigetto per inammissibilità della richiesta di riduzione della pena perché rappresentata in modo generico, qualora l’accordo transattivo risulti dagli atti di causa.
Concordato, IVA e ordine dei privilegi
Il pagamento integrale di IVA e ritenute non versate non rende inammissibile il concordato anche se lo stesso prevede lo stralcio di creditori con un grado di privilegio maggiore.
Con sentenza depositata il 9 febbraio, la terza sezione della Corte di Cassazione si è espressa a favore della società che, con ricorso strordinario ex art. 111 Cost., ha impugnato il decreto con il quale il giudice di prime cure ha dichiarato inammissibile la sua domanda di concordato preventivo.
Il piano concordatario era edificato sul pagamento integrale dei crediti privilegiati relativi a IVA e ritenute non versate, a scapito, tuttavia, di quelli di pertinenza dei dipendenti e dei professionisti, che sarebbero stati soddisfatti soltanto parzialmente. Parte attrice veniva interdetta alla possibilità di entrare in concordato preventivo perché il tribunale competente a ricevere la domanda eccepiva che, così come presentata, la stessa si sarebbe tradotta in una indebita alterazione della cause legittime di prelazione e, di conseguenza, in una violazione dell’art. 160 legge fallimentare. Ricorreva in Cassazione la società ravvisando nel decreto del giudice di merito la violazione degli articoli 160 e 182 ter della legge fallimentare. La domanda di concordato, infatti, prevedeva la suddivisione in classi dei creditori privilegiati, la prima delle quali comprendeva gli unici crediti (per IVA e ritenute non versate) che, per le loro caratteristiche, sarebbero stati pagati per intero.
Quanto previsto era perfettamente coerente al dettato normativo che, proprio all’art. 160 comma II legge fallimentare, conferma la facoltà per l’imprenditore di non soddisfare integralmente quei creditori muniti di privilegio, pegno o ipoteca, purché il piano presentato ne preveda una soddisfazione non inferiore a quella realizzabile sul ricavato in caso di liquidazione.
Nelle motivazioni della propria decisione, la Suprema Corte ha ribadito l’orientamento dalla stessa in precedenza già adottato (si veda Cass. 22932/2011) per cui, in presenza di crediti relativi ad IVA e a ritenute non versate, la proposta di concordato preventivo, per essere approvata, deve necessariamente prevedere il soddisfacimento completo dei crediti medesimi. Tale esigenza non è estesa a quei crediti che, seppur anteriori e anch’essi privilegiati, non presentino le stesse peculiarità, per i quali è ammesso anche un soddisfacimento parziale.
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Revocatoria e credito professionale
La revocatoria ai sensi dell’art. 67 co. 2 L.F. può essere accordata sulla base della sola fattura del professionista
La Cassazione si è espressa in proposito della revocabilità dei pagamenti effettuati in favore di un professionista in un caso in cui la conoscenza dello stato di insolvenza poteva evincersi dalla natura delle prestazioni svolte (Cass. Civ. Sez. I, 2 ottobre 2015, n. 19728).
Un commercialista aveva svolto per la fallita una serie di attività di consulenza, relative alla ristrutturazione di una società, al suo rilancio ed al suo sviluppo. Inoltre, lo stesso professionista aveva curato la redazione di un rapporto relativo alla situazione economica della società ed alle strategie economico–finanziarie di risanamento. Dette prestazioni sono state descritte in fattura.
La Suprema Corte ha ribadito che “in tema di revocatoria fallimentare, la conoscenza dello stato di insolvenza da parte del terzo deve essere effettiva, ma può essere provata anche per presunzioni gravi, precise e concordanti”. Pertanto, in funzione del ruolo svolto in stretto contatto con la fallita e del tipo particolare di prestazioni svolte in suo favore così come documentate in fattura, difficilmente si sarebbe potuta affermare l’ignoranza da parte del professionista dello stato di insolvenza.
La Cassazione ha quindi confermato la revocabilità ai sensi dell’art. 67 comma 2 L.F. del pagamento effettuato dalla fallita in favore del professionista, anche solo sulla base della fattura emessa nei confronti della stessa durante il c.d. periodo sospetto nel caso in cui da tale documento emerga la conoscenza dello stato di dissesto societario.
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