INPS e amministratore
L’amministratore di società commerciale utilizzata per il mero godimento di immobili non è obbligato all’iscrizione alla gestione commercianti
Con due sentenze gemelle, la Corte di Cassazione (Cass. Civ., 30.12.2016 n. 27588/16 e Cass. Civ. 30.12.2016 n. 27589/16) ha affermato che “ai sensi dell’art. 1, comma 203, L. n. 662/1996, che ha modificato l’art. 29 L. n. 160/1975, e dell’art. 3 L. n. 45/1986, nelle società in accomandita semplice la qualità di socio accomandatario non è sufficiente a far sorgere l’obbligo di iscrizione nella gestione assicurativa degli esercenti attività commerciali, essendo necessaria anche la partecipazione personale al lavoro aziendale, con carattere di abitualità e prevalenza, la cui ricorrenza deve essere provata dall’istituto assicuratore”.
- Pubblicato il Diritto del lavoro
Competition Report
THE ITALIAN COMPETITION AUTHORITY (AGCM) OPENS AN INVESTIGATION FOR ABUSE OF DOMINANT POSITION IN THE MARKET OF LAW PRACTICE MANAGEMENT SOFTWARES
Case note PCT
On May 11, 2016 (AGCM Bulletin17/2016), the Italian Competition Authority opened an investigation against Net Service S.p.A. for an alleged abuse of dominant position pursuant to Article 102 TFEU.
Net Service S.p.A. is a company active in the development of softwares for complex organizations. Net Service S.p.A. won three tender procedures to provide software services for the development, operation and management of several functions of the Italian Civil Court System as well as for the provision of additional ancillary services (help-desk, maintanance and development of the software systems of the Ministry of Justice, etc.).
The tender procedures were part of a project called “Processo civile telematico” (Electronic Civil Trial) promoted by the Ministry of Justice that aimed to provide the Civil Court System and its users (lawyers, judges, bankruptcy trustees, etc.) with an electronic interface that allowed to carry out substantial part of their legal activity such as electronically filing documents, issuing judgments, serving summons and petitions.
Net Service S.p.A. is also active in the downstream market of developing practice management softwares for professionals that interact with the Civil Court Operating System.
While the development and the management of the operating system to be used by the Civil Court System was awarded to Net Service S.p.A. by a tender procedure, the downstream market for legal softwares that interact with the Civil Court Operating System is open to the competition of other software houses.
Assogestionali, an association that is composed of several software houses that develop practice and office management softwares, reported to the Competition Authority that Net Service S.p.A. regularly delays the disclosure of the information needed to assure the update and the full interoperability of their softwares with the Civil Court Operating System. According to Assogestionali the required information is disclosed (sometimes only partially) only after the launch to the market of the updated version of the software developed by Net Service S.p.A.. This creates a delay in the development of competing softwares with the consequence that Net Service is viewed by legal professionals and bar associations as the sole provider of practice management softwares that interact with the Civil Courts Operating System.
The AGCM has found a prima facie evidence of the alleged conducts and opened an investigation for the alleged violation of Article 102 TFEU.
Avv. Marco Amorese – marco.amorese@amsl.it – Tel. +39 035 212175
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Atti in frode e revoca del concordato
Una tardiva disclosure non salva il concordato e non è necessario il voto dei creditori.
Cass. Civ. 5 maggio 2016, n. 9027
La Corte di Cassazione torna sull’annoso tema della rilevanza della disclosure in un procedimento per concordato preventivo per ribadire che l’esistenza di atti di frode rende necessario il subprocedimento di revoca della procedura di concordato ai sensi dell’art. 173 L.F.
I Giudici di piazza Cavour richiamano un principio già affermato precedentemente per cui, nonostante la riforma dell’istituto concordatario abbia voluto introdurre una maggiore flessibilità negoziale, la sussistenza di ragioni di carattere pubblicistico rendono inevitabile la revoca del concordato in caso di condotte fraudolente anche senza che sia necessario che i creditori, informati a seguito dei rilievi del commissario, esprimano il loro voto.
La Corte ne approfitta per ribadire le caratteristiche che l’atto in frode deve avere: esso può essere costituito da un atto che abbia anche solo una mera potenzialità decettiva ma deve essere posto in essere dolosamente, cioè nella consapevolezza di rendere un quadro inveritiero ai creditori chiamati al voto. Tuttavia, la Corte, pur rigettando nel caso di specie il ricorso, non sembra chiudere alla possibilità per il debitore, che voglia accedere al concordato e che abbia presentato una proposta difettosa, di modificare la proposta concordataria in corso di procedura in modo da ovviare ai difetti informativi della originaria proposta.
Se tale orientamento effettivamente si consolidasse, potrebbe forse trovare un equilibrio anche il difficile rapporto tra procedimento di revoca per atti in frode e concordato in bianco. Durante la fase del concordato in bianco, infatti, rimane inevitabilmente dubbio se possa revocarsi un concordato per quegli atti in frode che, se fatti conoscere ai creditori con la proposta completa, potrebbero essere superati dal voto favorevole dei creditori.
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Procedimento prefallimentare e onere della prova
L’assenza delle condizioni di fallibilità va provata dal debitore.
La Corte di Cassazione ha riaffermato che il debitore che in un procedimento voglia fare valere l’insussistenza dei requisiti dimensionali di fallibilità deve darne prova senza potere contare sull’iniziativa officiosa del Tribunale. Pertanto, il debitore che non depositi i bilanci nel giudizio prefallimentare non può lamentarsi della mancata verifica, da parte del Tribunale, dell’insussistenza del requisito dimensionale di fallibilità. Il principio è ormai ampiamente consolidato ed era stato riaffermato anche recentemente da Cass. civ. Sez. I, 15/01/2016, n. 625 (e, precedentemente, da Cass. civ., 04/06/2012, n. 8930). La Cassazione consolida pertanto l’orientamento più rigoroso in tema di ripartizione dell’onere della prova non sviluppando le aperture verso un’iniziativa officiosa più vasta che erano state adombrate in alcune precedenti pronunce (Cass. civ. Sez. I, 04/12/2015, n. 24721 (rv. 638149) che comunque avevano concluso che l’iniziativa officiosa dovesse svilupparsi nell’ambito del thema decidendum definito dalle allegazioni delle parti.
Va ricordato che la giurisprudenza ha, in modo uniforme, adottato un approccio rigoroso anche per quanto riguarda la valutazione dei dati contabili ed ha ritenuto che il deposito degli ultimi tre bilanci costituisce la base informativa necessaria per valutare i requisiti dimensionali, ma che il Tribunale ha facoltà di discostrarsi dalle risultanze degli stessi ogniqulvolta abbia ragione di ritenere che essi siano inattendibili e non ritraggano correttamente la realtà sociale (Cass. civ. Sez. VI – 1 Ordinanza, 28/06/2012, n. 11007 – App. L’Aquila, 09/05/2013).
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Speciale Riforma Fiscale
La riforma delle sanzioni tributarie amministrative
La pubblicazione del decreto legislativo 24 settembre 2015 numero 158 ha portato a termine il processo di revisione del sistema sanzionatorio tributario in conformità ai principi posti dalla legge delega n.23/2014.
L’articolo 8 comma 1 della legge delega L. 11 marzo 2014, n. 23 (c.d. Delega fiscale), oltre a demandare al governo una chiara individuazione dei confini tra le fattispecie di elusione e quelle di evasione fiscale e delle relative conseguenze sanzionatorie, affidava al governo la revisione del regime della dichiarazione infedele e del sistema sanzionatorio amministrativo al fine di meglio correlare, nel rispetto del principio di proporzionalità, le sanzioni all’effettiva gravità dei comportamenti con la possibilità di ridurre le sanzioni per le fattispecie meno gravi o di applicare sanzioni amministrative anziché penali.
Come noto, la prima bozza di decreto legislativo prevedeva l’entrata in vigore della riforma a fare data dall’1 gennaio 2017. Tuttavia, tale momento è stato anticipato al primo gennaio 2016 dalla legge di stabilità 2016.
In questa serie di articoli dedicati alla riforma del sistema sanzionatorio amministrativo, analizzeremo brevemente le principali novità introdotte dalla riforma fiscale. In questo primo articolo, analizzeremo il quadro normativo relativo all’omessa, infedele o inesatta dichiarazione.
L’omessa dichiarazione
Il legislatore ha perseguito una maggiore proporzionalità del trattamento sanzionatorio differenziando alcune condotte che si connotano, nell’ottica del legislatore, per una maggiore riprovevolezza da condotte che si connotano per una minore offensività. Il regime sanzionatorio è di tenore analogo sia per la dichiarazione relativa alle imposte dirette, IRAP che per la dichiarazione IVA.
In particolare, con riferimento all’omessa dichiarazione, la sanzione amministrativa è rimasta immutata ed è pari ad una somma che va dal 120% al 240% dell’ammontare delle maggiori imposte dovute con un minimo di €250. Tuttavia, il legislatore ha inteso introdurre un maggiore equilibrio diminuendo la sanzione per il contribuente che presenti la dichiarazione entro il termine di presentazione relativa al periodo di imposta successivo e, comunque, prima di qualsiasi attività di accertamento. In tale caso, infatti, la sanzione va dal 60% al 120% delle maggiori imposte dovute con un minimo di €200.
La dichiarazione infedele
Il legislatore ha introdotto una graduazione della risposta sanzionatoria anche per il caso della dichiarazione infedele, raggiungendo una maggiore equità. Se nella dichiarazione è indicato un reddito o un valore imponibile inferiore a quello accertato, ovvero un im’imposta inferiore o un credito d’imposta superiore, la sanzione ordinaria prevista va dal 90% al 180% (nel regime previgente la sanzione edittale andava dal 100% al 200%).
Il legislatore, tuttavia, ha voluto attenuare la risposta sanzionatoria per quelle irregolarità che non alterano in modo radicale il quadro oggetto della dichiarazione e che possono essere causate da erronee interpretazioni normative o ad una erronea imputazione di esercizio. Se la maggiore imposta o il minore credito accertato è inferiore al tre percento dell’imposta, la sanzione infatti è ridotta di un terzo.
Tuttavia, il Decreto Legislativo 158/15 ha inteso colpire duramente comportamenti più gravi: ove la dichiarazione infedele sia realizzata mediante l’utilizzo di documentazione falsa o relativa ad operazioni inesistenti o mediante artifici o raggiri o, infine, mediante condotte simulatorie, la sazione va dal 135% al 270% della maggiore imposta accertata.
Violazioni in materia di transfer pricing
Una disciplina particolare continua ad essere prevista per il caso in cui siano sottoposte ad esame le operazioni tra società appartenenti allo stesso gruppo multinazionale. In linea generale, l’art. 110 co.7 D.P.R. 917/1986 prevede che i componenti del reddito derivanti da operazioni con società non residenti appartenenti allo stesso gruppo multinazionale è valutato in base al valore normale di scambio.
L’art. 26 D.L. 78/10, al fine di adeguare la normativa tributaria italiana alle direttive emanate dall’OCSE, ha, tuttavia, previsto che non sia irrogabile la sanzione per infedele dichiarazione se l’impresa dimostra di avere documentato i critieri di determinazione dei prezzi di trasferimento in modo da fornire all’Amministrazione finanziaria idonei dati ed elementi conoscitivi necessari a consentire una completa ed approfondita analisi dei prezzi praticati (v. art. 1 co. 6 D.Lgs. 471/97 e Circ. 15 dicembre 2010 58/E) e abbia comunicato all’Amministrazione finanziaria il possesso di detta idonea documentazione in sede di dichiarazione. Tale disposizione di favore tesa a incoraggiare la predisposizione di documentazione relativa ai prezzi di trasferimento è stata estesa al caso in cui l’Amministrazione finanziaria rettifichi i valori normali comportando una modificha delle royalties e degli interessi attivi e delle correlative imposte sostitutive.
Dichiarazione inesatta
La violazione di regole di carattere formale relative al contenuto e alla documentazione della dichiarazione rimane punita con una sanzione minore e pari ad una somma che va da €250 a €2.000,00.
L’art. 8 D.Lgs. 471/97 è stato modificato in modo da accogliere in modo organico la nuova disciplina dei dividendi e delle plusvalenze relative a partecipazioni in imprese estere controllate Cfc. In caso di omessa indicazione nella dichiarazione di tali voci, la sanzione prevista è stata congegnata sulla falsariga di quanto era previsto per la mancata indicazione dei costi black list. Come noto, infatti, ove l’omissione o l’incompletezza riguardi l’indicazione delle spese o di altri componenti negativi relative a transazioni con paesi black list di cui all’art. 110 co. 11 TUIR., la sanzione prevista ammonta al 10 per cento delle spese e delle componenti negative non indicate.
La riforma ha inteso introdurre un regime sanzionatorio analogo a quanto finora previsto per i costi black list anche per i dividendi e le plusvalenze relative a partecipate in paesi black list. Come noto, infatti, il decreto internazionalizzazione ha eliminato l’obbligo di ruling preliminare relative alle controllate estere e ha semplicemente previsto l’obbligo di segnalazione nella dichiarazione dei redditi derivanti dalla detenzione di partecipazioni in imprese estere controllate, rendendo pertanto necessaria una sanzione per il caso di mancata indicazione delle stesse.
Parimenti, il decreto internazionalizzazione ha previsto l’ordinaria deducibilità del costo black list entro i limitial valore normale. Pertanto, a regime,
la disciplina della mancata indicazione del costo black list è destinato a divenire inapplicabile.
(Per maggiori informazioni o per un gradito feedback restiamo a Vostra disposizione)
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Falcidia dell’IVA e concordato
La Corte di Giustizia dice sì alla falcidia dell’IVA nel concordato preventivo
La Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha affermato che nell’ambito di un concordato liquidatorio che preveda la falcidia dei creditori privilegiati, non contrasta con la direttiva IVA e con il diritto comunitario una proposta che contempli uno stalcio anche dell’imposta sul valore aggiunto.
La Corte, dopo un breve excursus sulla ratio della direttiva IVA, ha affermato che la previsione di un pagamento solo parziale dell’IVA a debito non deve considerarsi violazione della disciplina comunitaria, poichè essa avviene in una procedura rigorosa come quella di concordato preventivo che, come noto, si fonda sull’attestazione di un esperto indipendente che accerta l’impossibilità di una maggiore soddisfazione del credito IVA in caso di fallimento.
I Giudici di Strasburgo notano che “nell’ambito del sistema comune dell’IVA, gli Stati membri sono tenuti a garantire il rispetto degli obblighi a carico dei soggetti passivi” ma che “beneficiano, al riguardo, di una certa libertà in relazione al modo di utilizzare i mezzi a loro disposizione”. La Corte, inoltre, sottolinea che nell’ambito della procedura concordataria l’Erario ha ampi poteri di intervento e di opposizione che garantiscono la serietà dello sforzo di riscossione ed evitano che il concordato sia utilizzato come uno strumento che menomi il principio di neutralità fiscale che presiede al sistema comunicario dell’IVA.
Alla luce di tali presupposti, pertanto, la Corte conclude, conformemente alle conclusioni dell’avvocato generale, che “l’ammissione di un pagamento parziale di un credito IVA, da parte di un imprenditore in stato di insolvenza, nell’ambito di una procedura di concordato preventivo che, a differenza delle misure di cui trattasi nelle cause che hanno dato origine alle sentenze Commissione/Italia (C-132/06, EU:C:2008:412) e Commissione/Italia (C-174/07, EU:C:2008:704) cui fa riferimento il giudice del rinvio, non costituisce una rinuncia generale e indiscriminata alla riscossione dell’IVA, non è contraria all’obbligo degli Stati membri digarantire il prelievo integrale dell’IVA nel loro territorio nonché la riscossione effettiva delle risorse proprie dell’Unione”
L’estensione del fallimento ad altra società di capitali
La Cassazione afferma l’estendibilità del fallimento ad una S.r.l. socia di fatto.
Cass. Civ. 21 gennai0 2016, n. 1095
IL CASO – Il Tribunale di Foggia afferma l’estensione del fallimento ad alcune società a responsabilità limitata che, per le modalità di gestione, si possono ritenere in fatto una sola società. La Corte di appello di Bari conferma la decisione sottolineando che, sebbene l’art. 2361 cod.civ. previsto per le società per azioni disponga la necessità di una delibera assembleare al fine di potere acquisire una partecipazione in una società di persone, tale requisito costituisce unicamente la rimozione di un limite al potere gestorio degli amministratori rilevante ai fini della loro responsabilità ma che non incide sull’efficacia dell’atto. La decisione della Corte d’appello viene impugnata con un ricorso in cassazione fondato su un’unica censura: la società di capitali non potrebbe partecipare ad una società irregolare di fatto in virtù della necessità di una regolare delibera assembleare ai sensi dell’art. 2361 c.c..
La decisione della Corte di legittimità affronta un tema che è stato oggetto di approcci altalenanti da parte della giurisprudenza di merito e che pare, con la sentenza in oggetto, consolidarsi nel senso della applicabilità della teoria della società di fatto anche alle società di capitali che in concreto vengono gestite come un unico ente.
Come noto, la legge fallimentare prevede, all’art. 147 co. 5, che ove emerga, successivamente al fallimento, l’esistenza di altri soci illimitatamente responsabili, su istanza del curatore, di un creditore o di un socio fallito può essere chiesto il fallimento in estensione del socio occulto. In modo analogo si procede nel caso in cui, dopo il fallimento di un imprenditore apparentemente individuale, risulti l’esistenza di una società di fatto.
Una giurisprudenza restrittiva ha inteso valorizzare la tutela dell’autonomia patrimoniale della società di capitali ritenendo che alla stessa non sia applicabile la disciplina di cui all’art. 147 l.f.. (v. tra le altre, Trib. Bergamo 15 giugno 2015, Trib. Bergamo 11 giugno 2015 su www.ilcaso.it, Trib. Foggia 3 marzo 2015 in Ilfallimentarista.it). Tale opzione ermeneutica vuole valorizzare la funzione di tutela dei soci e dei creditori dell’art. 2361 c.c. che prevede la necessità di una delibera assembleare per l’assunzione di una partecipazione in una società di persone. D’altra parte essa costituisce un approccio risalente, dal momento che argomentazioni di natura simile avevano fondato la motivazione di Cass. 5636/88 che aveva definitivamente escluso, nel sistema previgente alla riforma societaria, la possibilità per una società di capitali di assumere una partecipazione in società di persone.
La sentenza di legittimità che qui si commenta e un corpus significativo di decisioni di merito si collocano in netto contrasto con tale orientamento (Tribunale di Forlì, Sez. Fall., 9 febbraio 2008, n. 6, Tribunale di Prato, 15 ottobre 2010, Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, 8 luglio 2008, Tribunale di Firenze, 12 agosto 2009, Cass. n. 23344/2010 e Tribunale Vibo Valentia, Sez. Fall., 10 giugno 2011). Nella sentenza in commento, la Cassazione, dopo un attento excursus sulle conseguenze giuridiche che discendono dalle norme che, in modo analogo all’art. 2361 cod.civ., prevedono la necessità di una previa delibera assembleare, ha ritenuto prevalente la tutela della stabilità dell’agire societario e del mercato. Sottolinea, infatti, la corte che l’assenza di delibera assembleare non pone nel nulla il comportamento gestorio degli amministratori, ma rileva piuttosto sul piano delle responsabilità di questi ultimi. Infatti, la necessità di autorizzazione non determina uno spostamento del potere gestorio in capo all’assemblea, poichè “il sistema ordinamentale della società azionaria esclude, in via di principio, la nullità o l’inefficacia dell’atto negoziale compiuto dagli amministratori in violazione delle disposizioni sull’autorizzazione assembleare”.
Pertanto, la Corte conclude che, nel bilanciamento fra gli interessi dei creditori e dei soci partecipanti alla società azionaria e quelli esistenti in capo ai creditori della società di fatto, devono prevalere questi ultimi. D’altra parte, sottolinea la corte, il soggetto che entra in contatto con la società personale non ha modo di verificare da pubblici registri la previa deliberazione assembleare, posto che di essa non è prevista l’iscrizione ex art. 2193 e 2436 c.c.
Tali principi vanno applicati anche alla società irregolare, salva la necessità di indagare con rigore la sussistenza degli elementi che danno vita ad una società di fatto che, come noto, si caratterizza per un patrimonio ed un’attività comune, una effettiva partecipazione ai profitti ed alle perdite, la sussistenza di un vincolo di collaborazione tra i soci.
La Corte inoltre afferma che l’interpretazione letterale dell’art. 111-duodecies cod. civ. non porta a ritenere che, anche con riferimento alle società a responsabilità limitata, sussista un obbligo di previa deliberazione assembleare al fine di assumere partecipazioni in società personali. I giudici di piazza Cavour affermano che l’art. 111-duodecies sia rilevante ai fini della disciplina di bilancio applicabile per cui la società personale interamente partecipata da società di capitali sarà soggetta alle medesime prescrizioni di bilancio previste per queste ultime, mentre le partecipanti avranno l’obbligo del consolidamento.
Pure avendo emesso un articolato arresto, la Cassazione non risolve la questione relativa a quale sia il termine entro il quale fare valere la fallibilità in estensione della società di fatto. Alcuni precedenti di merito, hanno ritenuto che, ai sensi dell’art. 10 l.f., soglia invalicabile per la dichiarazione di fallimento in estensione fosse comunque l’anno dalla sentenza che ha dichiarato il fallimento del socio di fatto, sul presupposto che, con il fallimento di uno dei soci di fatto, venga meno il vincolo sociale (Tribunale Modena 10 giugno 2011 – Pres. Eleonora De Marco – Rel. Adriana Gherardi). Altre pronunce di legittimità hanno ritenuto privo di pregio tale orientamento dal momento che esso dà rilievo ad una circostanza non conoscibile nè conosciuta al momento della dichiarazione del fallimento, lo scioglimento del vincolo sociale (Cassazione civile, sez. VI 25 novembre 2015, n. 24112 – Pres. Dogliotti – Est. Ragonesi – Cassazione civile, sez. I 12 dicembre 2014, n. 26209 – Pres. Rordorf – Est. Di Amato).
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Concordato e gruppo di imprese
Il concordato di gruppo é inammissibile in assenza di una legislazione ad hoc
Cass. Civ. 13 ottoobre 2015 n. 20559
IL CASO – Quattro società di capitali appartenenti al medesimo gruppo, al fine di presentare un’unica proposta di concordato, costituiscono una società di persone in cui conferiscono il proprio patrimonio aziendale. La proposta che segue mantiene la distinzione tra le masse delle società di ciascuna delle società di capitali socie e conferenti. Il concordato viene omologato e le censure formulate in appello da quattro creditori vengono respinte dalla Corte d’appello genovese. I creditori e l’agenzia delle entrate interpongono ricorso in cassazione.
La Cassazione, con una motivazione a dire il vero asciutta, aderisce alla prospettazione dei creditori.
I giudici di piazza Cavour sottolineano, infatti, che nella realtà economica odierna le imprese operanti sul mercato sono frequentemente organizzate in gruppi di società e che, tuttavia, l’attuale sistema del diritto fallimentare, “non conosce il fenomeno, non dettando alcuna disciplina al riguardo, che si collochi sulla falsariga di quella enunciata in tema di amministrazione straordinaria alla L. 8 luglio 1999, n. 270, art. 80 e ss., o dal D.L. 23 dicembre 2003, n. 347, art. 4 bis, sulla ristrutturazione industriale di grandi imprese in stato di insolvenza, convertito, con modificazioni, in L. 18 febbraio 2004, n. 39, o con riguardo ai gruppi bancari od assicurativi insolventi”.
Nondimeno, la Corte non si astiene dal formulare alcune osservazioni che possono costituire utili principi operativi che devono presiedere, nel silenzio del legislatore, alle domande concordatarie connesse per il fatto di essere relative a societá appartenenti al medesimo gruppo. In particolare:
- Il coordinamento tra procedure di concordato che hanno una diversa competenza territoriale può operare solo sul piano materiale non operando il meccanismo processuale della connessione e la conseguente attrazione di una procedura a foro diverso.
- In presenza di più imprese appartenenti allo stesso gruppo, in assenza di una disciplina che regoli la materia diversamente, sarà necessario presentare una domanda per ciascuna società del gruppo.
- Occorre tenere distinte le masse attive e passive, che conservano la loro autonomia giuridica, dovendo restare separate le posizioni debitorie e creditorie delle singole società, onde evitare che i creditori delle società meno capienti concorrano inammissibilmente con quelli delle società più capienti e che vengano alterati i meccanismi di voto e di formazione del consenso sulle proposte concordatarie.
La Cassazione, pertanto, non coglie gli stimoli espansivi offertigli dalla giurisprudenza di merito (si erano espressi favorevolmente, tra gli altri, Trib. Terni 30 dicembre 2010, Trib. Roma 7 marzo 2011, Trib. La Spezia 2 maggio 2011, App. Genova 23 dicembre 2011, Trib.Benevento 18 gennaio 2012; Trib. Roma 25 luglio 2012; App. Roma 5 marzo 2013; Trib. Rovigo 5 novembre 2013 e, più recentemente, Trib. Ferrara 8 aprile 2014 e Trib. Palermo 9 giugno 2014) ribadendo una netta chiusura ad una valorizzazione della nozione di gruppo di imprese. Non rimane che attendere una disciplina esplicita dell’insolvenza di gruppo che dovrebbe essere oggetto dei lavori della commissione Rordorf il cui progetto di riforma organica dovrebbe essere in dirittura di arrivo.
Fallimento e diritto penale
Le dichiarazioni rilasciate al curatore senza assistenza del difensore sono utilizzabili nel processo penale
Cass. 22 settembre 2015, n. 38453
IL CASO – Un imputato è chiamato a rispondere, quale amministratore di fatto di una società fallita, per bancarotta fraudolenta documentale. L’ex amministratore ombra è accusato di avere sottratto, con dolo specifico, i libri e le scritture contabili della società. L’accusa di essere l’amministratore di fatto della società si fonda principalmente sulle dichiarazioni rese al Curatore dall’amministratrice di diritto che, per il resto, fonda la sua difesa su una poco credibile (quanto comune in casi di questa specie) narrazione circa il furto della documentazione sociale mentre la stessa veniva trasportata a bordo di un auto.
L’amministratore di fatto, condannato sia in primo grado che in appello, si lamenta davanti ai giudici di Piazza Cavour che, in violazione della giurisprudenza CEDU, l’affermazione del suo ruolo di reale gestore della società si fosse fondato in modo preponderante sulla testimonianza indiretta resa dal Curatore, il quale aveva riferito delle dichiarazioni a lui rese dall’amminitratrice di diritto che, nel processo penale, non era comparsa nè era stata interrogata dalla difesa.
LA SENTENZA – I giudici di legittimità si limitano a ribadire l’orientamento, ormai consolidato, secondo cui la testimonianza indiretta del curatore fallimentare sulle dichiarazioni a lui rese da un coimputato non comparso al dibattimento e trasfuse dal curatore nella propria relazione 33 L.F. è utilizzabile nel processo penale (V. in tal senso Cass. 4164/14 e Cass. 13285/13).
L’art. 63 c.p.p. prevede che se davanti all’autorità giudiziaria o alla polizia giudiziaria una persona non imputata rende dichiarazioni dalle quali emergono indizi di reità a suo carico, l’autorità procedente ne interrompe immediatamente l’esame e le dichiarazioni rese sono inutilizzabili. L’art. 64 u.c. prevede, inoltre, che se in sede di interrogatorio la persona sottoposta alle indagini non viene avvertito che le proprie dichiarazioni possono essere utilizzate nei confronti di altri, le dichiarazioni da costui rese non possono essere utilizzate nei confronti delle persone che quest’ultimo ha accusato. Le garanzie poste da queste norme sono estese, a norma dell’art. 220 c.p.p. disp. att., ai casi in cui l’attività ispettiva o di vigilanza sia resa anche da altri soggetti (“Quando nel corso di attività ispettive o di vigilanza previste da leggi o decreti emergano indizi di reato, gli atti necessari per assicurare le fonti di prova e raccogliere quant’altro possa servire per l’applicazione della legge penale sono compiuti con l’osservanza delle disposizioni del codice”)
I Giudici di Piazza Cavour, però, non ritengono applicabile alle dichiarazioni rese al curatore l’art. 63 c.p.p., poichè al Curatore non è applicabile il rinvio effettuato dall’art. 220 att. c.p.p. in quanto l’attività del Curatore non rientra nella nozione di attività ispettiva o di vigilanza.
La Cassazione, pertanto, preoccupata da ovvie esigenze punitive, non aderisce ad una applicazione espansiva del precetto posto dall’art. 111 Cost. (“La colpevolezza dell’imputata non può essere provata sulla base di dichiarazioni rese da chi, per libera scelta, si è sempre volontariamente sottratto all’interrogatorio da parte dell’imputato o dal suo difensore”) e conclude per la piena utilizzabilità della testimonianza indiretta resa dal Curatore.
- Pubblicato il Accordi, Ristrutturazioni e procedure concorsuali, Varie
La cessione del ramo d’azienda e la circolazione dei debiti
Un equilibrio instabile: la Cassazione tra circolazione dell’azienda e protezione dei creditori
Cass. Civ. 30 giugno 2015, n.13319
IL CASO – Una macelleria fornisce un’ingente quantità di carne ad un piccolo supermercato maturando un credito significativo. Il supermercato viene ceduto ad una catena di grande distribuzione ma l’ex proprietario mantiene la sezione macelleria. La cessione pertanto viene configurata come cessione di un ramo d’azienda. La macelleria, rimasta insoddisfatta, cita in giudizio la catena di distribuzione sostenendo che, in quanto cessionaria dell’azienda, debba rispondere dei debiti dalla cedente. La Cassazione dà torto all’attore sottolineando che, in caso di cessione di un ramo di azienda, i debiti di cui risponde il cessionario sono solo quelli funzionalmente collegati al ramo ceduto a prescindere dal fatto che il ramo ceduto abbia tenuto o meno una sua contabilità distinta
LA QUESTIONE – La Cassazione torna ad occuparsi del regime di circolazione dei debiti in caso di cessione di azienda. Come noto, l’articolo 2560 cod.civ. regola la sorte dei debiti relativi ad un’attività ceduta nel senso di trasferire al cessionario solo quei debiti che trovino riscontro nella contabilità della azienda ceduta. Recentemente (Cass. Civ. 21 dicembre 2012, n. 23828), i giudici di Piazza Cavour hanno affermato che l’art. 2560 cod. civ. realizza un bilanciamento in cui, alla solidarietà passiva del cedente e del cessionario per i debiti iscritti nelle scritture contabili dell’azienda ceduta, si accompagna una tutela rafforzata del cessionario cui è garantita dall’ordinamento la possibilità di avere la certezza dell’entità della massa debitoria associata all’azienda acquisita. Corollario della natura eccezionale della norma é che la stessa va interpretata in modo restrittivo e che, pertanto, non é sufficiente una identificazione parziale o incompleta del debito nelle scritture contabili, né é sufficiente la conoscenza aliunde dello stesso per potere legalmente opporre il debito al cessionario.
La questione all’attenzione della Corte nel caso di specie é invece più articolata e di complessa soluzione. Infatti, la cessionaria ha acquisito unicamente un ramo d’azienda con riferimento al quale non esiste una contabilità autonoma. La cedente, pertanto, con la vendita ha incisivamente diminuito la propria capacità patrimoniale ed é per questo che l’attore fa valere le sue domande nei confronti del cessionario.
Tuttavia, la Cassazione ha ritenuto di ritrovare l’equilibrio tra necessità di assicurare la sicura circolazione dell’azienda e la tutela dei creditori del cedente affermando la prevalenza della prima sulla seconda. Secondo la Cassazione, il cessionario diviene solidalmente responsabile con il cedente solo per i debiti funzionalmente collegati al ramo ceduto e senza che l’assenza di una autonoma contabilità abbia alcuna rilevanza.
CONSIDERAZIONI – La decisione in commento rivela un netto favore verso soluzioni che garantiscono una parcellizzazione funzionale dell’impresa ma finisce per trascurare quei creditori che assumono la decisione di contrattare con una impresa contando su una nozione vasta di garanzia patrimoniale che tiene in considerazione e valorizza l’articolazione complessa dell’impresa con cui contrattano. Ove questo orientamento si consolidasse, la cessione di ramo d’azienda si candida a divenire un validissimo strumento per effettuare spinoffs che valorizzino le attività in utile di un’impresa separandole dalle attività in perdita. Infatti, a differenza di quanto disposto in tema di scissione, dove ai sensi dell’art. 2506 quater cod. civ. “ciascuna società è solidalmente responsabile, nei limiti del valore effettivo del patrimonio netto ad essa assegnato o rimasto, dei debiti della società scissa non soddisfatti dalla società cui fanno carico”, con la cessione del ramo di azienda il cessionario potrebbe limitare la proporia responsabilità alle obbligazioni funzionalmente collegate all’azienda.
Ciò tuttavia andrà a discapito della garanzia dei creditori della cedente e potrà comportare la necessità per quest’ultimi di introdurre, in sede di contrattazione, clausole che limitino ex ante il potere di trasferire le componenti attive dell’azienda. Se ciò succedesse, la lettura dell’art. 2560 cod. civ. adottata dai giudici di piazza Cavour, nata con l’obiettivo di favorire la circolazione dell’azienda e la sicurezza dei traffici, potrebbe sortire esattamente l’effetto opposto.
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