Concordato e sopravvenienze attive
Risanamento o liquidazione: modificato il trattamento fiscale delle sopravvenienze legate ad una ristrutturazione procedimentalizzata
Il Decreto legislativo 147/15, recentemente varato dal governo, contiene importanti novità per quanto concerne la disciplina fiscale delle sopravvenienze attive generate da procedure di concordato o ristrutturazione. Come noto, la materia è stata oggetto di importanti rivisitazioni negli ultimi anni nel tentativo di conciliare le esigenze della ristrutturazione con il trattamento tributario delle perdite sui crediti.
Infatti, prima dell’entrata in vigore del D.L. 22 giugno 2012, n.83 nel TUIR vi era unicamente una previsione relativa alla non imponibilità delle sopravvenienze derivanti dal concordato preventivo o fallimentare, mentre non era prevista alcuna disposizione con riguardo alla riduzione dei debiti conseguenti all’omologazione dell’accordo di ristrutturazione dei debiti. A fronte di tale lacuna, vi era il tentativo della dottrina e degli operatori, prevedibilmente contrastato dall’Agenzia delle entrate (v. Nt. 6 marzo 2006 prot. 954/35315/2006 AE), di estendere in via interpretativa all’accordo di ristrutturazione la medesima disciplina prevista per il concordato.
Il vuoto normativo è stato colmato dall’art. 33 comma 4 D.L. 83/2012, il quale ha previsto che, anche per gli accordi di ristrutturazione dei debiti omologati o i piani attestati pubblicati sul registro delle imprese, la riduzione dei debiti dell’impresa non costituisse sopravvenienza attiva ma, a differenza di quanto previsto per il concordato, solo per la parte che eccedeva le perdite, pregresse e di periodo.
L’art. 13 D.Lgs. 147/15 ridefinisce i rapporti tra diverse modalità di ristrutturazione del debito di impresa. Esso estende gli effetti fiscali delle procedure concorsuali anche al caso in cui le sopravvenienze siano relative a procedure analoghe a quelle previste dal nostro ordinamento ma approvate in giurisdizioni diverse dall’Italia e con le quali esiste un adeguato scambio di informazioni. In modo significativo, inoltre, viene introdotto un trattamento fiscale differente delle sopravvenienze, non più correlato al distinguo accordo/concordato, bensì correlato al binomio liquidazione/risanamento.
Infatti, laddove il concordato sia lo strumento con il quale si intende preservare la continuità di impresa, analogamente all’accordo di ristrutturazione dei debiti omologato ai sensi dell’articolo 182-bis del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267, ovvero al piano attestato ai sensi dell’articolo 67, terzo comma, lettera d), del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267, pubblicato nel registro delle imprese, “la riduzione dei debiti dell’impresa non costituisce sopravvenienza attiva per la parte che eccede le perdite, pregresse e di periodo, di cui all’articolo 84, senza considerare il limite dell’ottanta per cento, e gli interessi passivi e gli oneri finanziari assimilati di cui al comma 4 dell’articolo 96”. Solo in caso di concordato liquidatorio o fallimentare le sopravvenienze saranno integralmente e senza limiti detassabili.
Il decreto inoltre interviene sulla tassabilità delle rinunce ai crediti effettuate dai soci, anch’esse spesso correlate ad una ristrutturazione societaria. Dette sopravvenienze infatti saranno detassabili solo nei limiti del valore fiscale del credito che dovrà essere autocertificato dal socio.
- Pubblicato il Accordi, Ristrutturazioni e procedure concorsuali, Internazionalizzazione e diritto internazionale
Agenzia delle entrate e transazione fiscale
L’Agenzia delle entrate ha pubblicato la Circolare 19 del 6 maggio 2015 sulla transazione fiscale, ripercorrendo l’evoluzione normativa e giurisprudenziale dell’istituto.
- Pubblicato il Accordi, Ristrutturazioni e procedure concorsuali
Proposta di legge sulla concorrenza
L’Autorità Garante per la concorrenza ed il mercato ha inviato al Governo ed al Parlamento la propria segnalazione per la predisposizione della legge annuale per la concorrenza in attuazione della legge 23 luglio 2009, n. 99.
- Pubblicato il Diritto della Concorrenza
Inquinamento e fallimento
Rifiuti inquinanti e responsabilità della Curatela
Con una importante decisione del 30 giugno 2014, la quinta sezione del Consiglio di Stato ha ribadito che non rientra tra le responsabilità della Curatela l’adempimento delle prescrizioni ingiunte con ordinanza sindacale e relative alla bonifica di siti sui quali il fallito ha versato rifiuti inqunanti per i quali la legge prevede la responsabilità solidale del proprietario dell’area.
Il caso prende le mosse da un’ordinanza sindacale nel quale il Comune di Pavia di Udine aveva ordinato alla Curatela di provvedere all’adempimento di una precedente ordinanza emessa dal Sindaco ai sensi dell’art. 192 D.lgs. 152/06 ed affronta una fattispecie purtroppo piuttosto frequente. Infatti, dati gli elevati costi di bonifica dei siti inquinati con l’abbandono di rifiuti, non è poi così raro che la municipalità, anzichè bonificare l’area affrontando i relativi costi ed addebitando le somme ai corresponsabili, si limiti ad emettere una ordinanza con la quale invita (o meglio, tenta di imporre) la Curatela a farsi parte attiva. D’altra parte, non infrequentemente capita che la Curatela non possa nemmeno pensare di affrontare le spese di bonifica per carenza di fondi.
La pronuncia appare importante, dal momento che, come noto, la mancata ottemperanza all’ordinanza sindacale ha rilievo penale ai sensi dell’art.255 D.Lgs. 152/05 secondo cui “chiunque non ottempera all’ordinanza del Sindaco, di cui all’articolo 192, comma 3, o non adempie all’obbligo di cui all’articolo 187, comma 3, e’ punito con la pena dell’arresto fino ad un anno. Nella sentenza di condanna o nella sentenza emessa ai sensi dell’articolo 444 del codice di procedura penale, il beneficio della sospensione condizionale della pena può essere subordinato alla esecuzione di quanto disposto nella ordinanza di cui all’articolo 192, comma 3, ovvero all’adempimento dell’obbligo di cui all’articolo 187, comma 3.“. E’ capitato, purtroppo, che, in modo forse un po’ distratto, fossero avviati procedimenti penali anche nei confronti del Curatore che non avesse provveduto all’adempimento dell’ordinanza sindacale.
Il decisum del Consiglio di stato appare dipanare alcune incertezze che possono discendere dall’articolata disciplina ambientale e, sottolineando come il fallimento abbia il mero effetto di spossessare dei beni ma non di privare il fallito della titolarità degli stessi, conclude che la Curatela non possa essere gravata da una responsaiblità che è, viceversa, prevista per il caso di successione nelle posizioni giuridiche della società. Ovviamente, sarà facoltà del giudice penale disapplicare il provvedimento illegittimo anche in assenza di un provvedimento del Tribunale amministrativo che annulli l’ordinanza sindacale.
Più complessa appare la situazione nel caso in cui sia stato autorizzato il provvisorio esercizio dell’attività. Infatti, in detta ipotesi, il Consiglio di stato pare affermare, seppur con un obiter dictum, la responsabilità del fallimento. Ne consegue, evidentemente, che la necessità di sopportare i costi di bonifica dovrà rientrare nell’attenta valutazione del Tribunale che autorizzi l’esercizio provvisorio dell’impresa, pena la possibilità di dovere affrontare ingenti spese di procedura con grave danno ai creditori.
- Pubblicato il Accordi, Ristrutturazioni e procedure concorsuali
Apprendistato
IL NUOVO APPRENDISTATO
Con legge di conversione n.78/14, il parlamento ha convertito in legge il D.L. 34/14 recante “disposizioni urgenti per favorire il rilancio dell’occupazione e per la semplificazione degli adempimenti a carico delle imprese” (forse un po’ enfaticamente) denominato jobs act.
Il legislatore ha, pertanto, operato l’ennesima estesa riforma del contratto di lavoro di apprendistato. L’ambizione è stata quella di procedere con una ulteriore semplificazione della disciplina e, almeno con riferimento all’apprendistato di primo livello, con una agevolazione retributiva che dovrebbe consentire un più esteso utilizzo della tipologia contrattuale. In quest’articolo, analizziamo l’articolato normativo cercando di sintetizzare i tratti più salienti della riforma e l’impatto della stessa sull’istituto dell’apprendistato che viene confermato, nelle intenzioni del governo, come lo strumento principe per l’ingresso nel mercato del lavoro.
TRE FORME DI APPRENDISTATO
l’impostazione generale rimane ancorata alla previsione di tre diverse forme di apprendistato.
- L’apprendistato per la qualifica e per il diploma professionale previsto per i soggetti che abbiano compiuto 15 anni e fino al compimento del 25º anno di età.
- L’apprendistato professionalizzante o contratto di mestiere, che è l’istituto di maggiore diffusione, previsto per i soggetti di età compresa tra i 18 e i 29 anni o, in caso il lavoratore sia in possesso di una qualifica professionale, il contratto di mestiere può essere stipulato a partire dal 17º anno di età.
- L’apprendistato di alta formazione e di ricerca pensato per il conseguimento di un diploma di istruzione secondaria superiore, di titoli di studio universitari e dell’alta formazione compresi i dottorati di ricerca nonché per il praticantato per l’accesso alle professioni ordine mistiche ed è aperto ai soggetti di età compresa tra i 18 e i 29 anni.
È stata conservata la previsione della possibilità di assumere in apprendistato i lavoratori in mobilità ai fini della loro qualificazione o riqualificazione professionale. In tali ipotesi in deroga alla disciplina generale dell’apprendistato rimangono applicabili, in materia di licenziamenti individuali, le norme di cui alla legge se 104 del 1966
IL CONTRATTO: ASPETTI GENERALI
Da un punto di vista formale si è mantenuta l’esigenza di individuare contestualmente al contratto scritto un piano formativo individuale che però può avere forma sintetica. Deve rivestire forma scritta anche il patto di prova. Si deve ritenere, tuttavia, che la forma scritta non sia un requisito di validità sostanziale (ad substantiam) ma sia unicamente necessaria ai fini della prova della natura del contratto (ad probationem). Milita in tal senso sia la mancata previsione esplicita della sanzione della nullità, sia la previsione di una sanzione amministrativa in caso di mancato rispetto della prova scritta (Art. 7 c. 2 D.Lgs. 167/11).
Il tentativo di rendere più flessibile la definizione del piano formativo e di eliminare i requisiti di stabilizzazione è stato oggetto di una rimeditazione in sede di conversione del decreto che ha confermato sia l’obbligatorietà di un piano formativo scritto contestuale al contratto (seppure in forma sintetica) sia l’onere di stabilizzazione per i datori di lavoro con almeno 50 dipendenti e nella percentuale del 20%.
La norma chiarisce, superando ogni dibattito dottrinale in materia ed in linea con l’interpello del Ministero del lavoro n. 79 del 12 novembre 2009, che il contratto di apprendistato è un contratto a tempo indeterminato. Viene ribadita pertanto la natura mista della causa del contratto in cui, oltre ad un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, vi è una componente formativa che ha un termine temporale. La contrattazione collettiva dovrà attenersi al principio secondo il quale la componente formativa del contratto non potrà essere inferiore a sei mesi. È prevista altresì la facoltà per le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano che abbiano definito un sistema di alternanza scuola lavoro che i contratti collettivi prevedano l’utilizzo del contratto di apprendistato anche a tempo determinato. In via generale i datori di lavoro che svolgono la propria attività secondo cicli stagionali hanno la facoltà di avvalersi della disciplina relativa al contratto a tempo determinato secondo quanto previsto dai contratti collettivi in materia. I contratti collettivi potranno stabilire la durata, anche minima, del contratto che, nell’apprendistato professionalizzante, per la sua componente formativa non potrà essere superiore a tre anni nella generalità dei casi e a cinque anni per quei profili professionali che sono individuati dalla dalla contrattazione di riferimento e relativi alla attività artigianali. Il decreto legislativo prevede un tetto di tre anni per l’apprendistato qualificante che può essere esteso a quattro anni nel caso il contratto prevede il raggiungimento dica un diploma regionale quadriennale. Mentre, correttamente, non è previsto alcun tetto di durata massima per il contratto di ricerca e alta formazione.
Nel corso del contratto vige il divieto per le parti di recedere durante il periodo di formazione in assenza di una giusta causa o di un giustificato motivo. In caso di licenziamento privo di giustificazione, Trovano applicazione le sanzioni previste dalla normativa vigente.
IL CONTENUTO FORMATIVO
Il contenuto formativo del contratto muta a seconda della tipologia di apprendistato scelto. Nella tipologia più comune il contratto di mestiere il percorso formativo tende a garantire il conseguimento di una qualifica professionale. La conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato le regioni e le province autonoma di Trento e Bolzano dovrà individuare alcune linee guida in vista di una disciplina più uniforme sull’intero territorio nazionale dell’offerta formativa pubblica (art. 2 L. 99/13). In assenza di un tale provvedimento, è previsto che (a) il piano formativo individuale sia obbligatorio esclusivamente in relazione alla formazione per l’acquisizione delle competenze tecnico professionali e specialistiche; (b) la registrazione della formazione sia effettuata in un documento avente i contenuti minimi del modello di libretto formativo del cittadino di cui al decreto ministeriale 10 ottobre 2005; (c) in caso di imprese che operano su diverse regioni, la formazione avviene nel rispetto della disciplina della regione dove l’impresa ha la propria sede legale. Rimane di competenza dei contratti collettivi nazionali e della disciplina regionale di settore la definizione delle modalità con cui il datore di lavoro può erogare la formazione interna.
Con riferimento, invece, all’apprendistato per la qualifica e per il diploma professionale, al fine di favorire il ricorso allo strumento contrattuale, il decreto-legge convertito ha previsto che fatta salva l’autonomia della contrattazione collettiva, al lavoratore sia riconosciuta una retribuzione che tenga conto delle ore di lavoro effettivamente prestate nonché delle ore di formazione nella misura del 35% del relativo monte ore complessivo.Le ore di formazione dovranno essere retribuite nella misura del 35%.
E’ previsto, che la regione provveda a comunicare al datore di lavoro, entro 45 giorni dalla comunicazione dell’instaurazione del rapporto, le modalità di svolgimento dell’offerta formativa pubblica che, nella sua componente trasversale, rimane almeno formalmente obbligatoria ed è subordinata alla effettiva proposta da parte degli organi regionali.
AGEVOLAZIONI RETRIBUTIVE E CONTRIBUTIVE
Il legislatore ha confermato le tecniche di agevolazione retributiva utilizzata in passato. Pertanto, i contratti collettivi potranno prevedere sia l’istituto del sotto inquadramento sia quello del pagamento percentualmente inferiore (percentualizzazione). È stata confermato il divieto di pagamento a cottimo che viene ritenuto ontologicamente incompatibile con un contratto ad alto contenuto formativo, anche nella forma del cottimo misto, mentre sono consentite forme di incentivazione legate alla produttività aziendale (sul punto il Ministero del Lavoro aveva chiarito con riferimento all’utile di cottimo che sono compatibili con l’apprendistato forme di retribuzione che siano sganciate dal risultato produttivo del lavoratore Min.Lavoro Interpello 13/2007).
La contribuzione a carico del datore di lavoro per i lavoratori assunti con il contratto di apprendistato e individuata in una aliquota del 10% da calcolare sul imponibile previdenziale. Inoltre è previsto che, a seguito dell’introduzione dell’ASPI, anche gli apprendisti saranno soggetti alla disciplina e alla relativa contribuzione dell’1,61%. L’agevolazione contributiva perdura anche nell’anno successivo alla conferma del lavoratore. La disciplina è ancora più favorevole per i datori di lavoro che hanno le proprie dipendenze fino a nove addetti. In tale ipotesi la contribuzione è pari all’1,50% del primo anno di contratto al 3% per il secondo anno di contratto e al 10% per gli anni di contratto successivi al primo.
Vanno inoltre per ricordarti due discipline di particolare favore. L’articolo 22 della legge 183 del 2011 ha previsto infatti un incentivo particolare e il totale sgravio contributivo per i contratti di apprendistato stipulati dal 1 gennaio 2012 al 31 dicembre 2016 e solo per i datori di lavoro che occupano un numero di addetti inferiore a nove. Inoltre vanno ricordati gli incentivi della legge 92/2012, che prevede nei casi di assunzione di lavoratori iscritti nelle liste di mobilità oltre a una contribuzione agevolata e pari al 10% dell’imponibile previdenziale anche un contributo mensile pari al 50% dell’indennità di mobilità che sarebbe spettata al lavoratore assunto.
LA SOMMINISTRAZIONE DI MANODOPERA IN APPRENDISTATO
È possibile assumere con contratto di apprendistato anche attraverso la somministrazione di lavoro a tempo indeterminato. Le imprese utilizzatrici potranno impiegare il personale apprendista in qualsiasi area aziendale, senza incorrere nei limiti quantitativi e al di là dei limiti settoriali che vincolano l’istituto della somministrazione di manodopera.
- Pubblicato il Diritto del lavoro, Varie
Lavoro
Accordi territoriali per la detassazione – Confprofessioni
Confprofessioni Lavoro ha pubblicato gli accordi territoriali sulla detassazione per l’anno 2014 negli Studi Professionali, sottoscritti dalle sedi Regionali di Confprofessioni con le controparti sindacali in ottemperanza alla legge di stabilità 2013 (l. 228/12).
Il DPCM 19 febbraio 2014 ha previsto che le remunerazioni erogate a titolo di retribuzione di produttività in conformità agli accordi assunti a livello aziendale o territoriale dalle organizzazioni maggiormente rappresentative a livello nazionale siano tassate con imposta sostitutiva del reddito delle persone fisiche pari al 10%.
http://www.confprofessionilavoro.eu/confprofessionilavoro-gli-accordi-territoriali-sulla-detassazione-per-lanno-2014/
- Pubblicato il Diritto del lavoro
Privacy e responsabilità da reato degli enti (D.Lgs. 231/01)
Il Decreto legge del 14 agosto 2013, n. 93 recante “Disposizioni urgenti in materia di sicurezza e per il contrasto della violenza di genere, nonché in tema di protezione civile e di commissariamento delle province” contiene, tra le sue pieghe, importanti modifiche alla disciplina della responsabilità da reato degli enti. Il Governo Letta, purtroppo, non si è affrancato dalla cattiva abitudine di introdurre, nel medesimo decreto legge, norme regolanti materie disparate e spesso carenti dei requisiti di necessità e urgenza. Così, il c.d. “decreto sul femminicidio” contiene disinvoltamente norme sull’illegittimo trattamento dei dati e sull’abuso dei mezzi di pagamento con carta.
Le norme introdotte sono destinate, se confermate in sede di conversione, ad avere un significativo impatto sulla vita delle imprese, poiché aggiungono al novero di reati di cui al D.Lgs. 231/01 fattispecie che presentano un alto rischio tipico per l’impresa.
Infatti, il decreto legge ha previsto l’estensione della responsabilità amministrativa degli enti ai delitti di cui agli articoli 640 ter cod.pen., 55 comma 9 d.lgs. 231/2007 ed ai delitti di cui alla Parte III, titolo III, Capo II del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196 (“Codice della Privacy”): si tratta rispettivamente dei reati di (1) frode informativa con sostituzione d’identità digitale, (2) di utilizzo indebito, falsificazione o alterazione di carte di credito o pagamento, (3) trattamento illecito di dati, nonché (4) di false dichiarazioni o inosservanza dei provvedimento del Garante della Privacy.
Appare evidente che, almeno l’estensione della responsabilità degli enti al reato di trattamento illecito di dati è una novità legislativa particolarmente importante soprattutto per le imprese che promuovano i propri servizi online o tramite sollecitazione mail e comporta la necessità di mettere a punto procedure rigorose e controlli adeguati.
Va ricordata, in particolare, la disciplina prevista dall’art. 167 Codice Privacy che punisce chiunque, al fine di trarne profitto o di recare ad altri un danno, procede al trattamento illegittimo di dati personali se dal fatto deriva nocumento ovvero se il fatto consiste nella comunicazione o diffusione. La giurisprudenza di legittimità, pur sottolineando che il trattamento illecito di dati è una fattispecie a pericolo concreto (e che, pertanto, vi debba essere una effettiva messa in pericolo del bene giuridico tutelato), ha interpretato in modo molto estensivo il concetto di nocumento, ritenendo che lo stesso possa essere non solo economico, “ma anche più immediatamente personale, come, ad esempio la perdita di tempo nel vagliare mail indesiderate e nelle procedure da seguire per evitare ulteriori rinvii” (così Cass. Pen. Sez. III sentenza del 24 maggio 2012, n.23798).
Al fine di chiarire l’ambito oggettivo dell’art. 167 Cod.Privacy è utile ricordare la definizione legislativa di dato personale. Il legislatore infatti, con l’art. 40 d.l. 201 del 6 dicembre 2011 ha ridefinito la nozione di “dato personale” intervenendo sulle disposizioni generali del Codice della privacy: oggi per “dato personale” deve intendersi qualunque informazione relativa a persona fisica e per “interessato” deve intendersi “la persona fisica cui si riferiscono i dati personali”.
Pertanto, in corretta applicazione del principio di legalità e tassatività delle fattispecie penali, non si può condividere l’opinione espressa dal Garante nel provvedimento in ordine all’applicabilità alle persone giuridiche del Codice privacy (Provv. Del 20 settembre 2012 pubblicato in G.U. 268 del 16 novembre 2012 http://www.garanteprivacy.it/web/guest/home/docweb/-/docweb-display/docweb/2094932), il quale ha ritenuto che anche l’illecito trattamento dei dati delle persone giuridiche, se avvenuto in violazione dell’art. 130 Cod.Privacy, possa integrare il delitto in questione. Ove, però, si consolidi l’orientamento giurisprudenziale sopra indicato, ne potrebbe derivare che ogni sollecitazione alla mail di persone fisiche non previamente autorizzata ed effettuata per ragioni commerciali potrebbe ricadere nella definizione consegnata dall’art. 167 Codice Privacy.
Val la pena, pertanto, riportare l’attenzione ai molteplici documenti emessi dal Garante della privacy in tema di spamming per ricordare alcune importanti regole da seguire. In particolare un utile riferimento sono le linee guida in materia di attività promozionale e contrasto allo spam del 4 luglio 2013 recentemente pubblicate (G.U. n. 174 del 26 luglio 2013).
Elemento cardine della disciplina è l’art. 13 codice privacy: l’attività promozionale è subordinata alla raccolta di un preventivo consenso da parte dell’interessato che deve essere libero ed informato. Senza un consenso preventivo non è possibile inviare email promozionali come chiarito ormai da tempo dal Garante (v. provvedimento del 29 maggio 2003).
Il consenso può intendersi reso in modo libero se non è preimpostato o condizionato alla fornitura di servizi che con il trattamento non abbiano alcun collegamento funzionale. Inoltre, il consenso deve essere specifico per ciascuna eventuale finalità perseguita. Il Garante ha ritenuto che, in un’ottica di semplificazione, un unico consenso può essere acquisito con riferimento sia all’esercizio dell’attività tradizionale di promozione che all’attività di promozione tramite sistemi automatizzati ai sensi dell’art. 130 Cod. Privacy. In questo caso, tuttavia, l’informativa dovrà specificare che la raccolta dei dati è finalizzata ad ambedue le modalità di promozione.
Per quanto riguarda la cessione dei dati a terzi e, quindi, l’utilizzo di database creati da altri soggetti, il Garante ha specificato che l’informativa dovrà indicare chiaramente che la raccolta dei dati personali è finalizzata alla cessione dei dati a terzi che dovranno essere indicati nominativamente o con riferimento alla categoria merceologica o economica di appartenenza. Il consenso così raccolto sgombra il campo al trattamento dei dati ai terzi acquirenti senza bisogno di un ulteriore autorizzazione. Va in ogni caso sottolineata la necessità che la promozione o sollecitazione pubblicitaria indichi un idoneo indirizzo dove l’interessato possa esercitare i diritti di rettifica e veto disposti dall’art. 7 Cod. Privacy, che deve potere essere esercitato nella stessa forma in cui viene effettuata la promozione: per cui una sollecitazione effettuata a mezzo mail dovrà indicare un indirizzo di posta elettronica dove esercitare i diritti di cui all’art. 7.
Come noto, il consenso ove non riguardi dati sensibili, non necessita di forma scritta ma comunque onera il responsabile del trattamento del dovere di provare quando e come il consenso è stato raccolto. Un alleggerimento degli oneri previsti dal Codice privacy viene assicurata dall’art. 130 Cod.Privacy che consente il c.d. “soft spam” cioè la promozione di servizi analoghi o collegati a prestazioni di cui l’interessato abbia già usufruito, in assenza di specifica autorizzazione.
Un aspetto cui, invece, si dovrà prestare particolare attenzione è la regolamentazione delle promozioni effettuate a mezzo di agenti commerciali. Può infatti accadere che il trattamento illecito sia commesso da agenti ma nell’interesse del preponente. In questa ipotesi, l’individuazione del responsabile del trattamento dovrà prendere in considerazione una serie di elementi extracontrattuali come il controllo esercitato dal preponente o la rappresentazione data ai terzi circa la prestazione dei servizi. Il Garante ha già in diverse occasioni ritenuto che il responsabile del trattamento fosse il preponente ogni qualvolta questi abbia esercitato un potere di controllo anche in virtù della subordinazione economica dell’agente. L’aspetto appare evidentemente delicato e dovrà essere affrontato con attenzione per non incorrere nelle sanzioni di cui al D.Lgs. 231/01. Il Garante ha chiarito che il preponente debba in ogni caso nominare come responsabile del trattamento l’agente ed accertarsi se questi faccia uso di subagenti o incaricati garantendo che anche questi ultimi utilizzino correttamente i dati raccolti.
- Pubblicato il Società e Impresa
Concordato e IVA. La Corte d’Appello di Genova torna sulla questione della falcidia
Un’interessante sentenza, recentemente depositata dalla Corte d’Appello di Genova (C. App. Genova n. 1326 del 7 luglio 2013) ritorna sulla vexata questio della falcidiabilità del credito IVA nel concordato riaprendo un dibattito, a dire il vero, mai sopito. La Corte di Cassazione, con le sentenze n. 22931 e 22932 del 2011 aveva superato l’orientamento espresso dall’Agenzia delle Entrate con la circolare n. 40/E del 2008 (e non condiviso da ampia giurisprudenza di merito), secondo cui il sub procedimento disciplinato dall’art. 182 ter L.F. e che regola la transazione fiscale costituisse una premessa necessaria per ottenere la falcidia dei crediti erariali.
La Suprema corte aveva correttamente messo in luce che detta linea interpretativa avrebbe conferito un vero e proprio diritto di veto all’Agenzia delle entrate che contrasta insanabilmente con il favor che il legislatore della riforma ha espresso nel rafforzamento degli strumenti negoziali di risoluzione della crisi.
Tuttavia, pur affermando la facoltatività del ricorso al concordato fiscale (che l’imprenditore può avere interesse a sollecitare al fine di ottenere il consolidamento del proprio debito erariale), la Corte riaffermava che la parte della norma che consente unicamente la dilazione e non la falcidia del debito IVA dovesse considerarsi “una disposizione eccezionale che, come si è osservato, attribuisce al credito in questione un trattamento peculiare e inderogabile” e quindi fosse applicabile al procedimento di concordato tout court. La risoluzione del contrasto con l’art. 160 L.F. che l’interpretazione estensiva accolta causava doveva essere affidato alla natura speciale della norma.
Pertanto, secondo la Corte, la proposta di concordato poteva trattare in modo deteriore rispetto all’IVA crediti il cui privilegio è maggiore proprio in virtù della esplicita disciplina di cui all’art. 182 ter.
La Corte di cassazione ricorreva ad un ragionamento di carattere sistematico per confortare la propria tesi, sottolineando che non vi poteva essere dubbio circa la possibilità di trattare in modo peculiare il credito IVA, dal momento che, “diversamente opinando, tra l’altro, si dovrebbe attribuire al legislatore se non l’intento quantomeno l’accettazione del rischio di rendere in molti casi sostanzialmente inattuabile il percorso concordatario in quanto, tenuto conto del basso grado di privilegio dell’IVA, la necessità di proporne l’integrale pagamento comporterebbe l’analoga necessità per tutti i crediti privilegiati, anche non tributar, rendendo oltretutto priva di contenuto la stessa transazione fiscale”.
La Corte d’Appello di Genova si distacca dall’orientamento, pur motivato, della Cassazione ribadendo che la disciplina di cui all’art. 160 L.F. ed i principi ivi indicati di non sovvertibilità dei gradi di privilegio devono ritenersi prevalenti rispetto alla necessità di assicurare la soddisfazione del credito IVA. La Corte genovese scardina la struttura logica della motivazione di Cass. 22913/11 utilizzando la medesima chiave interpretativa: la natura speciale della norma dil cui all’art. 182Ter L.F. impedisce una interpretazione analogica della stessa al di fuori dei casi sorretti della medesima ratio legis in corretta applicazione dei criteri ermenutici posti dall’art. 14 delle disposizioni sulla legge in generale.
Pertanto, secondo la Corte genovese, la non falcidiabilità dell’IVA non può estendersi al caso in cui il ricorrente non abbia voluto consolidare il proprio debito erariale mediante il subprocedimento del concordato fiscale.
- Pubblicato il Accordi, Ristrutturazioni e procedure concorsuali
Fallimento ed interruzione del processo civile
Il termine per riassumere decorre dalla sentenza di fallimento
Una recente ordinanza del Tribunale di Mantova (Presidente Villani – Relatore Gibelli 2 ottobre 2012) ha affrontato un tema importante che genera spesso incertezza: il termine di riassunzione del processo interrotto (ex art. 43 L.F.) dall’intervenuto fallimento di una parte.
Come noto, l’art. 43 L.F. ha stabilito che “l’apertura del fallimento determina l’interruzione del processo” comporta l’interruzione di diritto del processo. Il processo deve essere proseguito ai sensi dell’art. 302 c.p.c. con costituzione in udienza oppure riassunto con ricorso ai sensi dell’art. 303 c.p.c. .
A generare incertezza, sono le technicalities di come debba essere computato il dies a quo: un errato computo, infatti, comporta l’estinzione del processo. Alcune pronunce hanno ritenuto che il termine decorra dal giorno in cui il Giudice dichiara con ordinanza l’intervenuta interruzione del processo in presenza della parte interessata alla riassunzione ovvero dal giorno in cui fosse assicurata la conoscenza legale dell’intervenuto fallimento.
Il Tribunale di Mantova specifica che il giorno da cui decorre il termine trimestrale per riassumere il processo deve considerarsi quello della pubblicazione della sentenza di fallimento (si era pronunciato in modo analogo il Tribunale di Roma con sentenza n. 4978 dell’8 marzo 2011).
La pronuncia si fonda su ragioni di carattere sistematico, ma certo complica la vita del Curatore che, proprio nei primi mesi della procedura, è oberato da una serie di compiti ai quali deve aggiungere necessariamente anche la decisione in merito alla convenienza della continuazione o meno dei giudizi in corso.
Il rischio più grosso è che il Curatore non sia a conoscenza della pendenza e, pertanto, non sia in grado di esercitare tempestivamente il diritto di riassunzione. Non ovvia a questo grave inconveniente la possibilità di essere rimesso in termini, poichè la remissione in termini presuppone pur sempre la prova della mancanza di colpa che non è detto che sia un onere facilmente superabile.
- Pubblicato il Accordi, Ristrutturazioni e procedure concorsuali