Inps ed esdebitazione

Crediti contributivi ed esdebitazione

Cass. Civ., Sez. I, 11 Marzo 2016 n. 4844

Con una recente pronuncia (Cass. n. 4844/2016), la Corte di Cassazione ha precisato che la procedura di esdebitazione, disciplinata dall’art 142 L.F., trova applicazione anche con riferimento ai crediti contributivi non soddisfatti dalla procedura concorsuale, in quanto collegati all’esercizio dell’attività d’impresa.

L’istituto nazionale di previdenza (INPS) censurava la pronuncia della Corte d’appello di Firenze, in quanto la stessa aveva riconosciuto l’applicazione della procedura di esdebitazione per i crediti contributivi non soddisfatti nell’ambito del fallimento di una società in nome collettivo.

A dire della ricorrente, i debiti concorsuali non integralmente soddisfatti nell’ambito del fallimento sono esigibili nei confronti del socio fallito illimitatamente responsabile, secondo quanto previsto dall’art 120 comma 3 L.F., in quanto il rapporto previdenziale è estraneo all’esercizio dell’attività d’impresa.

Si difendeva con controricorso l’imprenditore fallito, il quale eccepiva l’inammissibilità del ricorso, poiché presentato tardivamente.

La Suprema Corte, rigettata l’eccezione d’inammissibilità formulata dal controricorrente, ha precisato che l’interpretazione fornita dall’INPS è del tutto priva di fondamento, poiché l’art 120 comma 3 L.F, nel stabilire che con la chiusura del fallimento i creditori acquistano nuovamente il diritto ad esercitare azioni nei confronti del debitore per la parte dei crediti non soddisfatta dalla ripartizione dell’attivo fallimentare, fa salvi espressamente gli artt. 142 e ss. L.F.

Come noto, il penultimo comma di detta disposizione nel prevedere l’esclusione dell’esdebitazione per alcune tipologie di debiti, non contempla tra queste ipotesi i debiti previdenziali. Il Collegio, richiamando il dato letterale della norma in esame, ha quindi affermato che anche i debiti contributivi sono soggetti alla procedura di esdebitazione.

Per i Giudici di Piazza Cavour è, altresì, sbagliato sostenere che il debito verso gli enti previdenziali sia estraneo all’esercizio dell’attività d’impresa, in quanto discende dalla legge. La Corte, infatti, afferma che l’art 142, comma 3, lettera a) L.F., così come modificato dal D.L.vo 169/2007, circoscrive l’area di non applicabilità dell’esdebitazione ai soli debiti personali del fallito.

Ciò premesso, la Corte ha concluso che i debiti previdenziali non possono rientrare nel novero di obbligazioni “estranee” all’esercizio dell’attività d’impresa, poichè tali debiti sorgono in occasione del rapporto di lavoro. In virtù di tali argomentazioni, la Corte ha rigettato il ricorso, condannando l’INPS al pagamento delle spese processuali.

La rettifica del bilancio impugnato e le ripercussioni sui bilanci successivi

Cass. Civ., Sez. I, 8 marzo 2016 n. 4522

Con una recente pronuncia, la Corte di Cassazione, nel decidere un ricorso sull’impugnativa di bilancio di esercizio di una società per azioni, ha riaffermato alcuni importanti principi in tema di diritto alla percezione degli utili da parte dei soci e di redazione di un bilancio d’esercizio rettificato, in esecuzione di quanto disposto dalla sentenza che detemini l’irregolarità del bilancio.

La società ricorrente lamentava che il Giudice di secondo grado non avesse riconosciuto il suo diritto alla percezione degli utili risultanti dalla rettifica dei precedenti bilanci d’esercizio, operata dagli amministratori della società per azioni della quale la ricorrente era azionista in ottemperanza a quanto disposto dalla pronuncia che aveva dichiarato la nullità dei bilanci stessi. La ricorrente, inoltre, censurava la sentenza di secondo grado, in quanto, a suo dire, escludeva la violazione dei principi di chiarezza e precisione nella redazione dell’ultimo bilancio d’esercizio (bilancio al 31.07.2005), approvato con la stessa delibera del 21.11.2005

Il Supremo Collegio, condividendo la conclusione del Giudice di secondo grado circa l’esclusione del diritto della ricorrente alla percezione degli utili, ha precisato che dall’art 2433 c.c. non discende il diritto degli azionisti alla distribuzione degli utili, poiché tale diritto sorge soltanto nel momento in cui la maggioranza assembleare dispone l’erogazione ai soci. L’assemblea, infatti, può decidere di accantonare gli utili ovvero di reimpiegare gli stessi nell’interesse della società.

Orbene, nella vicenda in esame la delibera assembleare del 21.11.2005 aveva disposto “il riporto a nuovo del residuo degli utili” dei bilanci rettificati (relativi agli anni 1979, 1980 e 1981), conformemente, peraltro, a quanto stabilito dallo statuto sociale vigente nel 2005. Ne conseguiva che in capo alla ricorrente non sussisteva alcun diritto di partecipare alla percezione dei dividendi.

Il ricorso veniva rigettato anche con riferimento alla seconda censura sollevata dall’appellante e relativa al diritto del socio a far valere la pretesa violazione dei principi di chiarezza e veridicità dei bilanci.

Secondo la ricostruzione della ricorrente, il bilancio d’esercizio al 31.07.2005 violava i principi sanciti dall’art. 2423 comma 2 c.c. e pertanto doveva considerarsi nulla la delibera con cui lo stesso bilancio era stato approvato. Nel dettaglio, la ricorrente asseriva che il bilancio approvato con la delibera oggetto d’impugnazione (bilancio al 31.07.2005) ometteva di indicare dati emergenti della rettifica operata sui bilanci relativi agli anni 1979, 1980 e 1981.

Il principio di continuità dei valori di bilancio trova applicazione anche nel caso in cui l’esattezza o la legittimità del bilancio dell’anno precedente sia stata messa in discussione in sede contenziosa. Il dovere degli amministratori di apportare al bilancio le modifiche imposte dalla sentenza che definisce la controversia sorta sull’esattezza e la legittimità del bilancio, nasce soltanto con il passaggio in giudicato della pronuncia. Pertanto, contrariamente a quanto asserito dalla ricorrente, i bilanci rettificati non dovevano avere necessariamente effetto sul bilancio successivo alla delibera relativa all’approvazione dei bilanci rettificati.

L’assemblea, nel caso in esame, ha rettificato i bilanci precedentemente impugnati (relativi agli anni 1979, 1980 e 1981), per effetto del giudicato formatosi con la pronuncia resa dalla Cassazione sull’impugnativa dei precedenti bilanci (Cass.n. 23976/2004). Tale rettifica, come accertato dalla stessa sentenza impugnata, è conforme alle delibere di approvazione dei bilanci successivi a quelli impugnati, dichiarate valide o considerate tali, in quanto non impugnate (le delibere di approvazione dei bilanci dal 1982 al 2005 non hanno infatti dato luogo ad alcuna contestazione).

I giudici di Piazza Cavour hanno quindi condiviso l’assunto della Corte d’appello, ribadendo che la delibera del 21.11.2005 è immune dalle censure concernenti i principi di chiarezza e di veridicità del bilancio, poiché i bilanci rettificati non dovevano produrre alcun effetto sul bilancio al 31.07.2005.

Falcidia dell’IVA e concordato

La Corte di Giustizia dice sì alla falcidia dell’IVA nel concordato preventivo

Corte di Giustizia C-546/14

La Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha affermato che nell’ambito di un concordato liquidatorio che preveda la falcidia dei creditori privilegiati, non contrasta con la direttiva IVA e con il diritto comunitario una proposta che contempli uno stalcio anche dell’imposta sul valore aggiunto.

La Corte, dopo un breve excursus sulla ratio della direttiva IVA, ha affermato che la previsione di un pagamento solo parziale dell’IVA a debito non deve considerarsi violazione della disciplina comunitaria, poichè essa avviene in una procedura rigorosa come quella di concordato preventivo che, come noto, si fonda sull’attestazione di un esperto indipendente che accerta l’impossibilità di una maggiore soddisfazione del credito IVA in caso di fallimento.

I Giudici di Strasburgo notano che “nell’ambito del sistema comune dell’IVA, gli Stati membri sono tenuti a garantire il rispetto degli obblighi a carico dei soggetti passivi” ma che “beneficiano, al riguardo, di una certa libertà in relazione al modo di utilizzare i mezzi a loro disposizione”. La Corte, inoltre, sottolinea che nell’ambito della procedura concordataria l’Erario ha ampi poteri di intervento e di opposizione che garantiscono la serietà dello sforzo di riscossione ed evitano che il concordato sia utilizzato come uno strumento che menomi il principio di neutralità fiscale che presiede al sistema comunicario dell’IVA.

Alla luce di tali presupposti, pertanto, la Corte conclude, conformemente alle conclusioni dell’avvocato generale, che “l’ammissione di un pagamento parziale di un credito IVA, da parte di un imprenditore in stato di insolvenza, nell’ambito di una procedura di concordato preventivo che, a differenza delle misure di cui trattasi nelle cause che hanno dato origine alle sentenze Commissione/Italia (C-132/06, EU:C:2008:412) e Commissione/Italia (C-174/07, EU:C:2008:704) cui fa riferimento il giudice del rinvio, non costituisce una rinuncia generale e indiscriminata alla riscossione dell’IVA, non è contraria all’obbligo degli Stati membri digarantire il prelievo integrale dell’IVA nel loro territorio nonché la riscossione effettiva delle risorse proprie dell’Unione”

La notifica dell’avviso di accertamento al socio fallito di una snc.

 

L’ufficio delle imposte di Rovigo notificava distinti avvisi di accertamento indirizzati ai due soci di una snc fallita (R.U. E Z.R.) al curatore fallimentare, e il curatore impugnava i due atti impositivi davanti alla commissione tributaria competente.

All’udienza fissata per la discussione, compariva uno dei due soci (Z.R.), il quale chiedeva che venisse dichiarata la nullità dell’atto, in quanto non notificato a lui personalmente ma soltanto al curatore.

La Commissione accoglieva il ricorso di entrambi i soci e la Commissione tributaria di secondo grado, adita dall’ufficio, confermava la decisione in relazione alla posizione del socio non comparso (R.U.), respingendo invece il ricorso per l’altro socio (Z.R.) che, comparendo all’udienza, avrebbe sanato il vizio di notifica.

Il socio comparso (Z.R.) impugnava quindi la decisione davanti alla CTC, che accoglieva il gravame, ritenendo che l’omessa notifica avesse in effetti determinato l’inesistenza (insanabile) dell’atto impositivo, in quanto tale da precludere un’adeguata difesa al fallito che, con la dichiarazione di fallimento, non perde in senso assoluto la propria capacità processuale.

Avverso tale decisione, proponeva ricorso per cassazione l’Agenzia, lamentando che il vizio di notifica non potesse dar luogo ad un’ipotesi di inesistenza, essendo la stessa “destinata esclusivamente a riverberarsi sulla possibilità di impugnare l’atto da parte del fallito anche fuori termine” nel solo caso di inerzia degli organi fallimentari.

Con la sentenza n. 5384/2016, la Corte di Cassazione ha accolto il ricorso.

Con detta Pronuncia, che si inserisce in un consolidato orientamento giurisprudenziale (v., ad es., Cass. civ. nn. 9434/14 e 5671/06), la Suprema Corte ha avuto modo di ribadire che in caso di fallimento di una società di persone e di estensione del fallimento ai soci illimitatamente responsabili ex art. 147 L.F., l’avviso di accertamento inerente a crediti i cui presupposti si siano determinati prima della dichiarazione di fallimento del contribuente o nel periodo d’imposta in cui la dichiarazione è intervenuta, deve essere notificato sia al curatore che al contribuente. Restando esposto alle conseguenze (anche di carattere sanzionatorio) del provvedimento definitivo, il fallito è infatti eccezionalmente abilitato ad impugnare l’atto impositivo, non potendo attribuirsi carattere assoluto alla perdita processuale conseguente alla dichiarazione di fallimento, che può essere eccepita soltanto dal curatore.

Tuttavia, l’obbligo di notificazione al fallito è strumentale a consentire allo stesso l’esercizio in via condizionata del diritto di difesa, azionabile solo in caso di inerzia degli organi della procedura, e la sua violazione, restando la posizione del fallito comunque assorbita nel concorso concernente la società, non può determinarne la nullità né, tantomeno, l’inesistenza.

Ne deriva che in caso di impugnazione da parte del curatore della società anche in veste di curatore fallimentare del socio, il diritto sostanziale del fallito ad esercitare il proprio diritto di difesa è soddisfatto e l’atto impositivo, pur non notificato al socio personalmente, non può pertanto che ritenersi legittimo.

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