Il reato di bancarotta fraudolenta è configurabile anche se viene presentato un piano di risanamento.

 
Cass. pen. 8926/2016

Due società proponevano ricorso per Cassazione avverso l’ordinanza del Tribunale del riesame che aveva confermato il decreto del G.i.p. del Tribunale di Chieti, con il quale era stato disposto il sequestro preventivo di un complesso aziendale di una società dichiarata fallita, nell’ambito di un’indagine nei confronti del debitore fallito per l’ipotesi di reato di bancarotta fraudolenta.

Le ricorrenti avevano acquistato dalla fallita tutti i beni aziendali, in pendenza di una domanda di concordato preventivo, alla quale il debitore fallito aveva poi rinunciato (rinuncia avvenuta a gennaio 2014) e alla quale era poi seguita la presentazione di un piano di risanamento aziendale, ai sensi dell’art 67, comma 3, lettera d) L.F. (marzo 2014), in concomitanza dell’avvio di una procedura di fallimento.

La dismissione degli assets aziendali era avvenuta in seguito all’avvio della procedura prefallimentare (il debitore era già comparso dinanzi al Tribunale per la delibera sull’istanza di fallimento avanzata dal Pubblico Ministero), iniziata in seguito alla chiusura della procedura di concordato, ma antecedentemente alla pronuncia della sentenza dichiarativa di fallimento.

Le ricorrenti lamentavano che il Tribunale, nel confermare il decreto del G.i.p. di Chieti, avesse omesso di considerare l’insussistenza del fumus commissi delicti del reato ipotizzato, con riferimento all’elemento soggettivo; evidenziando che il trasferimento dei beni era avvenuta prima della pubblicazione della sentenza di fallimento e che, inoltre, i creditori insinuati non avevano subito alcun pregiudizio, poiché era stati soddisfatti e il fallimento era stato poi chiuso.

La Corte di Cassazione, chiamata a decidere la controversia in esame, ha statuito che l’alienazione dei cespiti aziendali in esecuzione di un piano di risanamento presentato nella fase prefallimentare, costituisce una condotta distrattiva, laddove l’alienazione sia diretta a pregiudicare le garanzie per il ceto creditorio (Cass. pen. Sez.V, 03.03.2016, n. 8926).

I Giudici di Piazza Cavour, nel rigettare il ricorso proposto, hanno evidenziato che il provvedimento impugnato ha dato contezza del fumus del delitto contestato, relativamente all’elemento soggettivo. Per la Cassazione, infatti, gli atti dispositivi posti in essere dal debitore, in pendenza di una procedura prefallimentare, quando la società non è in grado di far fronte alle sue obbligazioni, sono diretti esclusivamente a privare la società del suo patrimonio,senza nessuna garanzia di soddisfacimento dei creditori sociali. A nulla rileva la circostanza che i creditori avessero rinunciato ai loro crediti insinuati tempestivamente al passivo del fallimento, poiché il pericolo per la soddisfazione dei creditori era sorto al momento dell’alienazione dei beni e il provvedimento impugnato dava comunque atto della presenza di creditori insoddisfatti.

La Corte ha poi fatto chiarezza sulle conseguenze derivanti dalla presentazione di un piano di risanamento, sottolineando che l’attività di alienazione svolta da un imprenditore in stato di decozione non è resa lecita dalla presentazione di un piano, ai sensi dell’art 67, comma 3, lettera d) L.F. La fattibilità e la serietà del piano devono essere valutate dal giudice penale, in quanto piano strumentale a salvaguardare le attività negoziali realizzate in momenti di crisi dell’impresa e, come tali, idonee a distogliere il patrimonio sociale.

Il piano di risanamento, infatti, consente all’imprenditore in stato di crisi di esercitare l’attività d’impresa, solo se detto rimedio è idoneo a risanare l’esposizione debitoria e a riequilibrare la situazione finanziaria dell’impresa, in una prospettiva di continuazione dell’attività.

Nel caso in esame, l’attività di disposizione del patrimonio sociale non poteva essere considerata lecita per il solo fatto che la stessa fosse stata realizzata in attuazione di un piano, ai sensi dell’art 67, comma 3, lettera d) L.F.; poiché il piano era stato richiesto per scopi dilatori, in seguito all’avvio della fase prefallimentare, quando ormai era evidente che non sussistevano possibilità di risanare la società.

Procedura e IVA

Omesso versamento IVA e concordato.

 

Nel momento in cui il debitore accede alla procedura di concordato preventivo, la gestione dei debiti dello stesso, fino ad allora autonoma e privata, assume una rilevanza pubblicistica. Pur dando spazio ad interessi privati, il concordato permette infatti al debitore di consegnare la gestione della sua crisi ad uno strumento qualificabile come pubblico. A questo proposito, basti pensare, ad esempio, che dal momento del deposito della domanda di concordato, i creditori non possono iniziare o proseguire azioni esecutive e cautelari sul patrimonio del debitore, la gestione dei beni e dell’impresa è sottoposta al controllo del commissario giudiziale e del giudice delegato, e che dal diniego dell’omologazione si può passare direttamente alla sentenza di fallimento, emessa contestualmente al decreto che respinge il concordato, il quale rappresenta pur sempre una particolare domanda giurisdizionale, alternativa a quella di dichiarazione di fallimento e a tutela della collettività. Pertanto, se la dilazione del pagamento IVA (secondo la giurisprudenza di legittimità, ammissibile in ogni tipologia di concordato) rientra nell’ambito del piano concordatario, ciò non può certo essere irrilevante ai fini penali. Del resto, consentire al giudice fallimentare di ammettere l’imprenditore al concordato che prevede il pagamento dell’IVA oltre il termine previsto e a quello penale di condannare per il reato di omesso versamento IVA lo stesso imprenditore che ha eseguito l’accordo omologato (la cui domanda era stata peraltro ab origine comunicata anche al pubblico ministero) costituisce infatti una “evidente e insostenibile frattura ordinamentale”.

Sulla base di questa motivazione, con la sentenza n. 15853/2015, la Suprema Corte di Cassazione ha escluso che possa sussistere il fumus commissi delicti del reato di cui all’art. 10 ter d.lvo 74/2000 quando un debitore è ammesso al concordato preventivo prima della scadenza del termine per il versamento di un debito IVA e il suo debito viene incluso nel piano concordatario. Con questa Pronuncia ­che ha sottolineato come la legge penale non possa essere intesa in modo avulso dagli altri settori pubblicistici dell’ordinamento giuridico­, sembra quindi superato quell’orientamento giurisprudenziale più restrittivo (v., ad es., Cass. pen. nn. 44283 e 39101/13) che, in virtù del principio di indisponibilità del debito IVA, riteneva che, in assenza di un accordo di transazione fiscale, il reato di cui all’art. 10 ter d.lvo 74/2000 ­reato omissivo istantaneo­ venisse comunque integrato alla scadenza del termine previsto per il versamento dell’IVA, indipendentemente dall’antecedente ammissione del debitore al concordato.

La transazione con la curatela costituisce una attenuante di cui il giudice penale deve tenere conto.

 

La Suprema Corte, con la sentenza n. 8644/2016, sembra aver premiato la tenacia dell’amministratore di una srl, poi dichiarata fallita, sul quale pendeva un procedimento con l’accusa di bancarotta fraudolenta patrimoniale.

L’amministratore aveva visto disattese le proprie aspettative sia nel primo che nel secondo grado di giudizio, ma la Cassazione ha ribaltato il verdetto finale.

La motivazione? L’imputato aveva raggiunto un accordo transattivo con la Curatela con cui si accollava parte del danno arrecato alla fallita.

Tale ammissione di responsabilità ha consentito all’uomo di poter chiedere al giudice penale la riduzione della pena.

Il giudice di prime cure ha respinto la richiesta dell’uomo che, avanti alla corte d’appello, ha impugnato la sentenza, rilevando, altresì, l’eccessività della pena irrogatagli.

La Corte d’appello, ribadisce l’orientamento manifestato dal Tribunale, stavolta perché la riduzione della pena sarebbe stata richiesta in virtù di un generico riferimento, peraltro non documentato, ad una transazione raggiunta dall’uomo con il Fallimento.

La Suprema Corte ha annullato la sentenza e ha disposto la trasmissione degli atti alla Corte d’appello intimandola ad uniformarsi all’indirizzo per cui non è da ritenere motivato il rigetto per inammissibilità della richiesta di riduzione della pena perché rappresentata in modo generico, qualora l’accordo transattivo risulti dagli atti di causa.

Il pagamento integrale di IVA e ritenute non versate non rende inammissibile il concordato anche se lo stesso prevede lo stralcio di creditori con un grado di privilegio maggiore.

 

Con sentenza depositata il 9 febbraio, la terza sezione della Corte di Cassazione si è espressa a favore della società che, con ricorso strordinario ex art. 111 Cost., ha impugnato il decreto con il quale il giudice di prime cure ha dichiarato inammissibile la sua domanda di concordato preventivo.

Il piano concordatario era edificato sul pagamento integrale dei crediti privilegiati relativi a IVA e ritenute non versate, a scapito, tuttavia, di quelli di pertinenza dei dipendenti e dei professionisti, che sarebbero stati soddisfatti soltanto parzialmente. Parte attrice veniva interdetta alla possibilità di entrare in concordato preventivo perché il tribunale competente a ricevere la domanda eccepiva che, così come presentata, la stessa si sarebbe tradotta in una indebita alterazione della cause legittime di prelazione e, di conseguenza, in una violazione dell’art. 160 legge fallimentare. Ricorreva in Cassazione la società ravvisando nel decreto del giudice di merito la violazione degli articoli 160 e 182 ter della legge fallimentare. La domanda di concordato, infatti, prevedeva la suddivisione in classi dei creditori privilegiati, la prima delle quali comprendeva gli unici crediti (per IVA e ritenute non versate) che, per le loro caratteristiche, sarebbero stati pagati per intero.

Quanto previsto era perfettamente coerente al dettato normativo che, proprio all’art. 160 comma II legge fallimentare, conferma la facoltà per l’imprenditore di non soddisfare integralmente quei creditori muniti di privilegio, pegno o ipoteca, purché il piano presentato ne preveda una soddisfazione non inferiore a quella realizzabile sul ricavato in caso di liquidazione.

Nelle motivazioni della propria decisione, la Suprema Corte ha ribadito l’orientamento dalla stessa in precedenza già adottato (si veda Cass. 22932/2011) per cui, in presenza di crediti relativi ad IVA e a ritenute non versate, la proposta di concordato preventivo, per essere approvata, deve necessariamente prevedere il soddisfacimento completo dei crediti medesimi. Tale esigenza non è estesa a quei crediti che, seppur anteriori e anch’essi privilegiati, non presentino le stesse peculiarità, per i quali è ammesso anche un soddisfacimento parziale.

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