Fallimento e diritto penale
Le dichiarazioni rilasciate al curatore senza assistenza del difensore sono utilizzabili nel processo penale
Cass. 22 settembre 2015, n. 38453
IL CASO – Un imputato è chiamato a rispondere, quale amministratore di fatto di una società fallita, per bancarotta fraudolenta documentale. L’ex amministratore ombra è accusato di avere sottratto, con dolo specifico, i libri e le scritture contabili della società. L’accusa di essere l’amministratore di fatto della società si fonda principalmente sulle dichiarazioni rese al Curatore dall’amministratrice di diritto che, per il resto, fonda la sua difesa su una poco credibile (quanto comune in casi di questa specie) narrazione circa il furto della documentazione sociale mentre la stessa veniva trasportata a bordo di un auto.
L’amministratore di fatto, condannato sia in primo grado che in appello, si lamenta davanti ai giudici di Piazza Cavour che, in violazione della giurisprudenza CEDU, l’affermazione del suo ruolo di reale gestore della società si fosse fondato in modo preponderante sulla testimonianza indiretta resa dal Curatore, il quale aveva riferito delle dichiarazioni a lui rese dall’amminitratrice di diritto che, nel processo penale, non era comparsa nè era stata interrogata dalla difesa.
LA SENTENZA – I giudici di legittimità si limitano a ribadire l’orientamento, ormai consolidato, secondo cui la testimonianza indiretta del curatore fallimentare sulle dichiarazioni a lui rese da un coimputato non comparso al dibattimento e trasfuse dal curatore nella propria relazione 33 L.F. è utilizzabile nel processo penale (V. in tal senso Cass. 4164/14 e Cass. 13285/13).
L’art. 63 c.p.p. prevede che se davanti all’autorità giudiziaria o alla polizia giudiziaria una persona non imputata rende dichiarazioni dalle quali emergono indizi di reità a suo carico, l’autorità procedente ne interrompe immediatamente l’esame e le dichiarazioni rese sono inutilizzabili. L’art. 64 u.c. prevede, inoltre, che se in sede di interrogatorio la persona sottoposta alle indagini non viene avvertito che le proprie dichiarazioni possono essere utilizzate nei confronti di altri, le dichiarazioni da costui rese non possono essere utilizzate nei confronti delle persone che quest’ultimo ha accusato. Le garanzie poste da queste norme sono estese, a norma dell’art. 220 c.p.p. disp. att., ai casi in cui l’attività ispettiva o di vigilanza sia resa anche da altri soggetti (“Quando nel corso di attività ispettive o di vigilanza previste da leggi o decreti emergano indizi di reato, gli atti necessari per assicurare le fonti di prova e raccogliere quant’altro possa servire per l’applicazione della legge penale sono compiuti con l’osservanza delle disposizioni del codice”)
I Giudici di Piazza Cavour, però, non ritengono applicabile alle dichiarazioni rese al curatore l’art. 63 c.p.p., poichè al Curatore non è applicabile il rinvio effettuato dall’art. 220 att. c.p.p. in quanto l’attività del Curatore non rientra nella nozione di attività ispettiva o di vigilanza.
La Cassazione, pertanto, preoccupata da ovvie esigenze punitive, non aderisce ad una applicazione espansiva del precetto posto dall’art. 111 Cost. (“La colpevolezza dell’imputata non può essere provata sulla base di dichiarazioni rese da chi, per libera scelta, si è sempre volontariamente sottratto all’interrogatorio da parte dell’imputato o dal suo difensore”) e conclude per la piena utilizzabilità della testimonianza indiretta resa dal Curatore.
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Opzione put e patto leonino
Un’opzione put, pur dando facoltà alla parte di cedere la sua partecipazione evitando di subire le perdite sociali può non costituire patto leonino
Con sentenza n. 9301/2015 del 06/08/2015, la Sezione Specializzata in materia d’impresa del Tribunale di Milano si è espressa circa l’eventuale qualificabilità della c.d. “opzione put” come patto leonino contrario al dettato normativo dell’art. 2265 c.c.
Va innanzi tutto chiarito cosa si intenda per “opzione put”. Essa può essere definita come ilcontratto in base al quale l’acquirente dell’opzione acquista il diritto, ma non l’obbligo, di vendere un titolo (azioni o quote di società in genere) ad un prezzo e ad una scadenza stabiliti, mentre l’altra parte, nel caso in cui vi sia esercizio di detto diritto, si impegna ad acquistare il titolo di cui avrà già incassato il premio.
Richiamandosi ad una costante giurisprudenza di legittimità (si vedano ad esempio Cass. Civ. Sez. I, n.24376/2008; Cass. Civ. Sez. II n. 642/2000; Cass. Civ. Sez. I n. 8927/1994) il Tribunale di Milano ha indicato due criteri specifici per la qualificazione del patto leonino: si applica l’art. 2265 c.c. esclusivamente nei casi in cui sussista l’esclusione dalle perdite o dagli utili di un socio in modo costante e assoluto e che tale esclusione non risponda ad interessi meritevoli di tutela.
L’opzione put, pertanto, non è contraria alla legge e in particolare all’art. 2265 c.c. se si inserisce in un più grande quadro complessivo tale da poterne escludere la non rispondenza ad interessi degni di protezione.
Nel merito, l’opzione prevista nel contratto tra le parti non poteva essere classificata come contraria alle norme di legge in quanto prevedeva un limite temporale, mancando quindi di costanza e assolutezza. Inoltre, la stessa si inseriva in un’operazione di integrazione societaria e industriale tra le due parti in causa finalizzata ad ampliare la quota di mercato nazionale ed internazionale di una delle due che, a causa della sua delicatezza, rendeva necessaria una tutela specifica.
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La cessione del ramo d’azienda e la circolazione dei debiti
Un equilibrio instabile: la Cassazione tra circolazione dell’azienda e protezione dei creditori
Cass. Civ. 30 giugno 2015, n.13319
IL CASO – Una macelleria fornisce un’ingente quantità di carne ad un piccolo supermercato maturando un credito significativo. Il supermercato viene ceduto ad una catena di grande distribuzione ma l’ex proprietario mantiene la sezione macelleria. La cessione pertanto viene configurata come cessione di un ramo d’azienda. La macelleria, rimasta insoddisfatta, cita in giudizio la catena di distribuzione sostenendo che, in quanto cessionaria dell’azienda, debba rispondere dei debiti dalla cedente. La Cassazione dà torto all’attore sottolineando che, in caso di cessione di un ramo di azienda, i debiti di cui risponde il cessionario sono solo quelli funzionalmente collegati al ramo ceduto a prescindere dal fatto che il ramo ceduto abbia tenuto o meno una sua contabilità distinta
LA QUESTIONE – La Cassazione torna ad occuparsi del regime di circolazione dei debiti in caso di cessione di azienda. Come noto, l’articolo 2560 cod.civ. regola la sorte dei debiti relativi ad un’attività ceduta nel senso di trasferire al cessionario solo quei debiti che trovino riscontro nella contabilità della azienda ceduta. Recentemente (Cass. Civ. 21 dicembre 2012, n. 23828), i giudici di Piazza Cavour hanno affermato che l’art. 2560 cod. civ. realizza un bilanciamento in cui, alla solidarietà passiva del cedente e del cessionario per i debiti iscritti nelle scritture contabili dell’azienda ceduta, si accompagna una tutela rafforzata del cessionario cui è garantita dall’ordinamento la possibilità di avere la certezza dell’entità della massa debitoria associata all’azienda acquisita. Corollario della natura eccezionale della norma é che la stessa va interpretata in modo restrittivo e che, pertanto, non é sufficiente una identificazione parziale o incompleta del debito nelle scritture contabili, né é sufficiente la conoscenza aliunde dello stesso per potere legalmente opporre il debito al cessionario.
La questione all’attenzione della Corte nel caso di specie é invece più articolata e di complessa soluzione. Infatti, la cessionaria ha acquisito unicamente un ramo d’azienda con riferimento al quale non esiste una contabilità autonoma. La cedente, pertanto, con la vendita ha incisivamente diminuito la propria capacità patrimoniale ed é per questo che l’attore fa valere le sue domande nei confronti del cessionario.
Tuttavia, la Cassazione ha ritenuto di ritrovare l’equilibrio tra necessità di assicurare la sicura circolazione dell’azienda e la tutela dei creditori del cedente affermando la prevalenza della prima sulla seconda. Secondo la Cassazione, il cessionario diviene solidalmente responsabile con il cedente solo per i debiti funzionalmente collegati al ramo ceduto e senza che l’assenza di una autonoma contabilità abbia alcuna rilevanza.
CONSIDERAZIONI – La decisione in commento rivela un netto favore verso soluzioni che garantiscono una parcellizzazione funzionale dell’impresa ma finisce per trascurare quei creditori che assumono la decisione di contrattare con una impresa contando su una nozione vasta di garanzia patrimoniale che tiene in considerazione e valorizza l’articolazione complessa dell’impresa con cui contrattano. Ove questo orientamento si consolidasse, la cessione di ramo d’azienda si candida a divenire un validissimo strumento per effettuare spinoffs che valorizzino le attività in utile di un’impresa separandole dalle attività in perdita. Infatti, a differenza di quanto disposto in tema di scissione, dove ai sensi dell’art. 2506 quater cod. civ. “ciascuna società è solidalmente responsabile, nei limiti del valore effettivo del patrimonio netto ad essa assegnato o rimasto, dei debiti della società scissa non soddisfatti dalla società cui fanno carico”, con la cessione del ramo di azienda il cessionario potrebbe limitare la proporia responsabilità alle obbligazioni funzionalmente collegate all’azienda.
Ciò tuttavia andrà a discapito della garanzia dei creditori della cedente e potrà comportare la necessità per quest’ultimi di introdurre, in sede di contrattazione, clausole che limitino ex ante il potere di trasferire le componenti attive dell’azienda. Se ciò succedesse, la lettura dell’art. 2560 cod. civ. adottata dai giudici di piazza Cavour, nata con l’obiettivo di favorire la circolazione dell’azienda e la sicurezza dei traffici, potrebbe sortire esattamente l’effetto opposto.
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