Un’interessante sentenza, recentemente depositata dalla Corte d’Appello di Genova (C. App. Genova n. 1326 del 7 luglio 2013) ritorna sulla vexata questio della falcidiabilità del credito IVA nel concordato riaprendo un dibattito, a dire il vero, mai sopito. La Corte di Cassazione, con le sentenze n. 22931 e 22932 del 2011 aveva superato l’orientamento espresso dall’Agenzia delle Entrate con la circolare n. 40/E del 2008 (e non condiviso da ampia giurisprudenza di merito), secondo cui il sub procedimento disciplinato dall’art. 182 ter L.F. e che regola la transazione fiscale costituisse una premessa necessaria per ottenere la falcidia dei crediti erariali.

La Suprema corte aveva correttamente messo in luce che detta linea interpretativa avrebbe conferito un vero e proprio diritto di veto all’Agenzia delle entrate che contrasta insanabilmente con il favor che il legislatore della riforma ha espresso nel rafforzamento degli strumenti negoziali di risoluzione della crisi.

Tuttavia, pur affermando la facoltatività del ricorso al concordato fiscale (che l’imprenditore può avere interesse a sollecitare al fine di ottenere il consolidamento del proprio debito erariale), la Corte riaffermava che la parte della norma che consente unicamente la dilazione e non la falcidia del debito IVA dovesse considerarsi “una disposizione eccezionale che, come si è osservato, attribuisce al credito in questione un trattamento peculiare e inderogabile” e quindi fosse applicabile al procedimento di concordato tout court. La risoluzione del contrasto con l’art. 160 L.F. che l’interpretazione estensiva accolta causava doveva essere affidato alla natura speciale della norma.

Pertanto, secondo la Corte, la proposta di concordato poteva trattare in modo deteriore rispetto all’IVA crediti il cui privilegio è maggiore proprio in virtù della esplicita disciplina di cui all’art. 182 ter.

La Corte di cassazione ricorreva ad un ragionamento di carattere sistematico per confortare la propria tesi, sottolineando che non vi poteva essere dubbio circa la possibilità di trattare in modo peculiare il credito IVA, dal momento che, “diversamente opinando, tra l’altro, si dovrebbe attribuire al legislatore se non l’intento quantomeno l’accettazione del rischio di rendere in molti casi sostanzialmente inattuabile il percorso concordatario in quanto, tenuto conto del basso grado di privilegio dell’IVA, la necessità di proporne l’integrale pagamento comporterebbe l’analoga necessità per tutti i crediti privilegiati, anche non tributar, rendendo oltretutto priva di contenuto la stessa transazione fiscale”.

La Corte d’Appello di Genova si distacca dall’orientamento, pur motivato, della Cassazione ribadendo che la disciplina di cui all’art. 160 L.F. ed i principi ivi indicati di non sovvertibilità dei gradi di privilegio devono ritenersi prevalenti rispetto alla necessità di assicurare la soddisfazione del credito IVA. La Corte genovese scardina la struttura logica della motivazione di Cass. 22913/11 utilizzando la medesima chiave interpretativa: la natura speciale della norma dil cui all’art. 182Ter L.F. impedisce una interpretazione analogica della stessa al di fuori dei casi sorretti della medesima ratio legis in corretta applicazione dei criteri ermenutici posti dall’art. 14 delle disposizioni sulla legge in generale.

Pertanto, secondo la Corte genovese, la non falcidiabilità dell’IVA non può estendersi al caso in cui il ricorrente non abbia voluto consolidare il proprio debito erariale mediante il subprocedimento del concordato fiscale.

Il termine per riassumere decorre dalla sentenza di fallimento

Una recente ordinanza del Tribunale di Mantova (Presidente Villani – Relatore Gibelli 2 ottobre 2012) ha affrontato un tema importante che genera spesso incertezza: il termine di riassunzione del processo interrotto (ex art. 43 L.F.) dall’intervenuto fallimento di una parte.

Come noto, l’art. 43 L.F. ha stabilito che “l’apertura del fallimento determina l’interruzione del processo” comporta l’interruzione di diritto del processo. Il processo deve essere proseguito ai sensi dell’art. 302 c.p.c. con costituzione in udienza oppure riassunto con ricorso ai sensi dell’art. 303 c.p.c. .

A generare incertezza, sono le technicalities di come debba essere computato il dies a quo: un errato computo, infatti, comporta l’estinzione del processo. Alcune pronunce hanno ritenuto che il termine decorra dal giorno in cui il Giudice dichiara con ordinanza l’intervenuta interruzione del processo in presenza della parte interessata alla riassunzione ovvero dal giorno in cui fosse assicurata la conoscenza legale dell’intervenuto fallimento.

Il Tribunale di Mantova specifica che il giorno da cui decorre il termine trimestrale per riassumere il processo deve considerarsi quello della pubblicazione della sentenza di fallimento (si era pronunciato in modo analogo il Tribunale di Roma con sentenza n. 4978 dell’8 marzo 2011).

La pronuncia si fonda su ragioni di carattere sistematico, ma certo complica la vita del Curatore che, proprio nei primi mesi della procedura, è oberato da una serie di compiti ai quali deve aggiungere necessariamente anche la decisione in merito alla convenienza della continuazione o meno dei giudizi in corso.

Il rischio più grosso è che il Curatore non sia a conoscenza della pendenza e, pertanto, non sia in grado di esercitare tempestivamente il diritto di riassunzione. Non ovvia a questo grave inconveniente la possibilità di essere rimesso in termini, poichè la remissione in termini presuppone pur sempre la prova della mancanza di colpa che non è detto che sia un onere facilmente  superabile.

 

 

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