Concordato e transazione fiscale
La transazione fiscale non è obbligatoria ma la soddisfazione parziale del credito erariale privilegiato rende necessaria la finanza esterna per la soddisfazione dei creditori privilegiati di grado inferiore
Con una concisa ma chiara pronuncia (Cass. Civ. Sez. I 16066/2018), la prima sezione civile della Corte di cassazione ha ribadito alcuni principi cardine nel rapporto tra concordato con stralcio dei crediti erariali e transazione fiscale di cui all’art. 182 ter L.F.
La Corte ha ribadito la stabilità del principio secondo cui la transazione fiscale è un sub-procedimento facoltativo che può (ma non deve) essere avviato dal debitore che abbia la necessità ad ottenere il voto favorevole degli enti interessati.
In assenza della transazione fiscale, la corte ha ribadito l’applicabilità delle regole generali dello stralcio dei debiti privilegiati anche alle pretese erariali. Ne consegue, secondo la Corte, che qualora vi sia uno stralcio del debito privilegiato (con l’attestazione che comunque la soddisfazione riservata al creditore privilegiato è maggiore rispetto allo scenario liquidatorio), la soddisfazione dei crediti di grado inferiore presuppone l’utilizzo di finanza esterna. Infatti, argomentando in modo contrario, si consentirebbe una illegittima inversione dell’ordine dei privilegi.
Trasferimento della sede e fallimento
Il trasferimento della sede all’estero non salva dal fallimento
Una strategia, che negli ultimi anni, è stata spesso usata per evitare il fallimento è quella di trasferire all’estero la sede sociale. Decorso l’anno dalla cancellazione, infatti, il giudice italiano non può più pronunciare il fallimento della società. Ciò è vero, tuttavia, solo ove la società abbia cessato effettivamente di operare.
La Cassazione, con una sentenza emessa ai primi di gennaio (Cass. Civ. 4 gennaio 2017, n. 43), ha ribadito un principio consolidato (v. anche Cass. S.U. 5945/13) per cui se il trasferimento è fittizio, il giudice italiano rimane competente a valutare l’insolvenza di una società che non è stata cancellata per liquidazione totale dell’attivo e che continui ad operare. In tali casi, infatti, il termine annuale non opera.
Azione di responsabilità e fallimento
Quantificazione del danno. Il criterio dello “stato passivo” è solo residuale.
La Corte di Cassazione, con una sentenza emessa ai primi di gennaio (Cass. Civ. 3 gennaio 2017, n. 38) ha ribadito il principio secondo cui nelle azioni di responsabilità promosse dal curatore fallimentare il ricorso al criterio di quantificazione che fa riferimento alla differenza tra l’attivo e lo stato passivo accertato è solo residuale.
La corte ha infatti ribadito che tale criterio è un riferimento cui il giudice può ricorrere solo nei casi in cui voglia quantificare equitativamente il danno. L’attore, tuttavia, anche quando non abbia rinvenuto la contabilità sociale, deve allegare elementi da cui desumere l’inadempimento colpevole dell’amministratore della società fallita e la plausibilità dell’attribuzione del danno, nella misura così equitativamente determinata.
Termine annuale e concordato preventivo
Il concordato della società cancellata è inammissibile
Una società di persone propone una domanda di concordato preventivo successivamente alla cancellazione dal registro delle imprese. Revocato il procedimento concordatario, il tribunale dichiara la non fallibilità della società cancellata perchè è decorso più di un anno dalla cancellazione dal registro delle imprese. Rilevato un possibile contrasto con il dettato costituzionale per irragionevolezza dal momento che il debitore potrebbe capziosamente depositare una domanda di concordato al solo fine di fare decorrere il termine annuale, il Giudice remittente ha trasmesso gli atti alla Corte costituzionale.
La Corte (Corte Cost. 13 gennaio 2017, n. 9) ha affermato l’inammissibilità del ricorso per irrilevanza della questione, evidenziando come la giurisprudenza di legittimità non ritenga ammissibile un procedimento concordatario promosso da una società cancellata, dal moento che, con la cancellazione, viene meno il fine di risanamento proprio del procedimento concordatario.
Revocatoria e termini d’uso
L’anomalia nei termini di pagamento utilizzati tra le parti impedisce l’esenzione dalla revocatoria
Con una sentenza pubbicata in data 7 dicembre 2016 (Cass. Civ. 7 dicembre 2016 n. 25162), la Corte di cassazione ha finalmente preso posizione sulla nozione consegnata dall’art. 67 co. 3 lettera (a) che, come noto, esonera da revocatoria i pagamenti ricevuti nei “termini d’uso”.
La nozione di “termine d’uso” è stata interpretata variabilmente in dottrina e nella giurisprudenza di merito, facendo riferimento sia agli usi di settore, sia agli usi intercorsi tra le parti.
La Corte di cassazione nella pronuncia di dicembre ha aderito alla tesi secondo cui primario criterio interpretativo circa la sussistenza di un pagamento nei termini d’uso debba essere il rapporto intercorso tra le parti nel corso del tempo, acquisendo pertanto particolare rilievo la modifica di condizioni contrattuali o modalità di pagamento che possono essere sintomatici della consapevolezza dell’incipiente insolvenza.
Fallimento e società di fatto
Super società di fatto o responsabilità da eterodirezione. Il gruppo di imprese alle prese con il fallimento
Il 2016 è stato un anno ricco di pronunce importanti in tema di responsabilità e fallibilità del socio occulto, un tema che, da tempo ormai immemorabile, affascina e divide la giurisprudenza e gli studiosi senza un approdo definitivo.¹ Come noto, la teoria della società occulta è volta a consentire di aggredire, mediante la sottoposizione a fallimento, il patrimonio di soggetti che abbiano abusato dello schema tipico legale della società di capitali e della limitazione di responsabilità. L’effetto concreto è sostanzialmente simile a quello che, negli ordinamenti anglosassoni, viene realizza attraverso lo strumento del piercing the corporate veil: il socio tiranno acquisisce responsabilità per le obbligazioni sociali.
La notissima sentenza Caltagirone (Cass. Civ. 24 febbraio 1990, n.1439)² sembrava avere dato una sistemazione definitiva alla questione della fallibilità di una società occulta, aprendo la porta al superamento dell’autonomia patrimoniale perfetta. Tuttavia, detta porta sembrava essere stata, almeno in parte, richiusa dalla riforma del diritto societario che ha prediletto un’impostazione che fa leva su una forma di responsabilità risarcitoria e non patrimoniale all’interno del gruppo di società.
Infatti, in tale prospettiva, gli artt. 2497 ss. cod. civ. hanno previsto una forma di responsabilità che presuppone la dimostrazione dell’abuso dei principi di corretta gestione imprenditoriale e la valutazione di eventuali vantaggi compensativi che la partecipazione al gruppo comporta piuttosto che la sottoposizione dell’intero patrimonio del socio di fatto alle regole concorsuali.
Tuttavia, le limitazioni alla possibilità di affermare una responsabilità individuale del socio tiranno per direzione e coordinamento abusiva del gruppo hanno riaperto il ricorso alla teorica della estensione del fallimento alla holding persona fisica. Le Curatele, infatti, hanno promosso questa tipologia di azione che, certamente, appare uno strumento sufficientemente snello ed efficace contro gli abusi più gravi, ma che presenta alcune peculiarità.
La giurisprudenza più attenta che si è occupata della materia della holding di fatto (e in particolar modo della holding personale), infatti, ha richiamato l’esigenza di una verifica rigorosa degli elementi sintomatici dell’impresa. La Cassazione ha stabilito che sia “configurabile una holding di tipo personale allorquando una persona fisica, che sia a capo di più società di capitali in veste di titolare di quote o partecipazioni azionarie, svolga professionalmente, con stabile organizzazione, l’indirizzo, il controllo ed il coordinamento delle società medesime, non limitandosi, così, al mero esercizio dei poteri inerenti alla qualità di socio. A tal fine è necessario che la suddetta attività, di sola gestione del gruppo (cosiddetta holding pura), ovvero anche di natura ausiliaria o finanziaria (cosiddetta holding operativa), si esplichi in atti, anche negoziali, posti in essere in nome proprio, fonte, quindi, di responsabilità diretta del loro autore, e presenti altresì obiettiva attitudine a perseguire utili risultati economici, per il gruppo e le sue componenti, causalmente ricollegabili all’attività medesima” (in questo senso Cass. S.U. 29 novembre 2006, n. 25275).³ Tuttavia non si è mancato di rilevare che, spesso, la giurisprudenza si è accontantata di un accertamento superficiale della sussistenza di una vera e propria attività di impresa.
In questo quadro, si è sviluppato il contrasto giurisprudenziale tra quelle corti di merito che hanno affermato la possibilità di ricorrere in via analogica alla estensione del fallimento prevista dall’art. 147 L.F. anche nel caso in cui il socio occulto fosse una società di capitali (4) e quelle corti che, viceversa, hanno ritenuto impossibile tale estensione (5). Il contrasto ha dato, altresì, origine a due pronunce della Corte costituzionale che, chiamata a valutare l’incostituzionalità della norma, ha dato origine a due ordinanze, Corte Cost. 12 dicembre 2014, n. 276 e Corte Cost., 29 gennaio 2016, n.15 entrambe di rigetto.
Le corti che hanno sostenuto l’impossibilità di estendere analogicamente l’art. 147 L.F. alle società di capitali hanno fatto leva prevalentemente su un’argomentazione di carattere letterale. Il fatto che una società di capitali possa essere socia di una società di persone ha certamente eliminato un limite concettuale molto forte alla fallibilità della società occulta; tuttavia, l’articolo 2361 comma 2 cod. civ. prevede che “l’assunzione di partecipazioni in altre imprese comportante una responsabilità illimitata per le obbligazioni delle mdesime deve essere deliebrata dall’assemblea” e, in modo analogo, l’art. 111 duodecies disp.att. cod.civ. prevede obblighi informativi per le società di persone partecipate da enti aventi autonomia patrimoniale perfetta. Pertanto, ne discende l’impossibilità per una società di capitali di assumere tacitamente partecipazioni in società di persone, dal momento che vi è un limite legale al potere degli amministratori.
Un’ulteriore linea argomentativa (in realtà a mio parere più convincente), invece, fa leva su una interpretazione di carattere sistematico. Si è detto che la previsione di una responsabilità risarcitoria da direzione e coordinamento (pur pensata per ovviare a eventuali abusi tra società in bonis) e la specificazione che la curatela può esercitare detta azione costituisce la prova che il legislatore ha inteso regolare l’abuso mettendo a disposizione della curatela tale strumento e non l’estensione del fallimento ex art. 147 L.F.. Pertanto, il curatore potrà tutelare i creditori della società eterodiretta facendo valere la responsabilità della capogruppo, quand’anche occulta.
I fautori dell’estendbilità alle società di capitali della disciplina di cui all’art. 147 L.F. fanno un ragionamento che si fonda su ragioni di equità sostanziale, ritenendo irragionevole un trattamento così differenziato tra socio occulto persona fisica e socio occulto persona giuridica.
Nel 2016, sono intervenute alcune decisioni particolarmente importanti perchè, se non sgombrano il campo dai dubbi teorici, costituiscono un passo deciso verso l’affermazione della estendibilità del fallimento alla super società di fatto. Con Cass. Civ. 21 gennaio 2016 n.1095, infatti, il giudice di legittimità ha specificato che la delibera assembleare non costituisce un limite ai poteri degli amministratori che, nell’ambito del loro potere gestorio, possono assumere la qualifica di socio sepppure in via di mero fatto. Pertanto, vincendo l’argomentazione formale della carenza di potere formale, la Cassazione ha affermato l’estendibilità del fallimento ai sensi dell’art. 147 L.F.
Tale orientamento si è ulteriormente consolidato con Cass. Civ. 13 giugno 2016, n.12120, la quale ha ribadito la possibilità per la società di capitali di assumere, in via di fatto, la qualifica di socito di società, sottolineando che quand’anche ricorresse un vizio genetico nell’atto costitutivo della società tra una società a responsabilità limitata ed una persona fisica, ne discenderebbe la conversione in una causa di scioglimento per il principio della conservazione degli atti posti in essere da una società nulla.
Successivamente, sono intervenute due ulteriori pronunce che, nel giungere alla estensione del fallimento, hanno provato ad operare una fusione tra le ragioni di chi ritiene che l’art. 147 L.F. sia lo strumento normativo principe per giungere alla dichiarazione del socio occulto e chi, viceversa, preferisce fare leva sulla responsabilità da direzione e coordinamento.
Infatti, nella sentenza Cass. Civ.. 25 luglio 2016, n. 15346 e nella recentissima Cass. Civ. 22 dicembre 2016, n. 26765, i giudici di Piazza Cavour hanno affermato sia l’estendibilità del fallimento alla holding di fatto, sia la sindacabilità in via incidentale in sede prefallimentare della responsabilità da direzione e coordinamento che può essere elemento di valutazione dell’insolvenza della holding di fatto.
Insomma, affermato con chiarezza il principio (il socio di fatto può fallire anche se ente avente autonomia patrionale perfetta) sembra che la giurisprudenza stia cercando la sistemazione teorica migliore per riportare ad unità due norme, l’art. 147 L.F. e l’art. 2497 cod.civ. che hanno presupposti e meccanismi di funzionamento profondamente diversi, ma obiettivi in parte equiparabili.
Non c’è che da attendere gli sviluppi futuri.
(1) come noto, Walter Bigiavi sviluppò la teoria dell’imprenditore occulto negli anni cinquanta del secolo scorso, cfr. W. BIGIAVI, Responsabilità del socio tiranno, in Foro it., 1969, I, 1180, preceduta da i suoi lavori ID., “L’imprenditore occulto”, Padova, 1954, ID “Ancora sulla giurisprudenza della Cassazione in tema di società occulta”, Giurisprudenza italiana, 1957, I, ID, “La giurisprudenza della Cassazione sull’ammissibilità della società occulta”, Giurisprudenza italiana, 1957, IV.
(2) La sentenza è molto nota ed ha ricevuto molteplici commenti. Vedi, tra gli altri, Weigmann R, in GIur.it, 1990, I, 713, Libonati B, in Giur.comm, 1991, II, 366.
(3) In modo analogo, si è pronunciata la giurisprudenza di merito. Vedi, tra le altre, Trib. Genova, 26 settembre 2005, in Società, 2006, 330, Trib. Napoli 8 gennaio 2007, Trib. Vicenza 23 novembre 2006, in Fallimento, 2007, 407, nt. F.Fimmanò; Trib. Roma, 19 dicembre 2012, in Dir.fall., 2014, II 515, nt. F.Murino;
(4) Tribunale di Forlì, Sez. Fall., 9 febbraio 2008, n. 6; Tribunale di Prato, 15 ottobre 2010; Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, 8 luglio 2008; Tribunale di Firenze, 12 agosto 2009, e Tribunale Vibo Valentia, Sez. Fall., 10 giugno 2011
(5) v. Trib. Bergamo 15 giugno 2015; Trib. Bergamo 11 giugno 2015; Trib. Foggia, 3 marzo 2015, in ilfallimentarista.it, Trib. Santa Maria Capua Vetere, 15.1.2015, in ilcaso.it; Trib. Mantova 30.4.2013, in ilcaso.it; App. venezia, 10.12.2011, in ilcaso.it; App. Torino 30.7.2007, in Nuovo dir. soc. 07, 2219; App. Bologna, 11.6.2008, in Fall. 08, 1293; App. Napoli 5,6,2009, in Nuovo dir. soc., 09, n. 16, 42,
Diritti TV – Tar Lazio
Il TAR Lazio annulla il provvedimento AGCM sui diritti TV
Con provvedimento del 19 aprile 2016, l’AGCM aveva sanzionato RTI – Televiseive Italiane S.p.A., Mediaset Premium S.p.A., Infront, Lega Calcio e Sky per una intesa occorsa nell’assegnazione dei diritti TV.
Il Tar Lazio (Tar Lazio 23 dicembre 2016, n. 12812) ha annullato detto provvedimento.
- Pubblicato il Diritto della Concorrenza, Società e Impresa
Impugnativa di bilancio e conseguenze
La rettifica del bilancio impugnato e le ripercussioni sui bilanci successivi
Cass. Civ., Sez. I, 8 marzo 2016 n. 4522
Con una recente pronuncia, la Corte di Cassazione, nel decidere un ricorso sull’impugnativa di bilancio di esercizio di una società per azioni, ha riaffermato alcuni importanti principi in tema di diritto alla percezione degli utili da parte dei soci e di redazione di un bilancio d’esercizio rettificato, in esecuzione di quanto disposto dalla sentenza che detemini l’irregolarità del bilancio.
La società ricorrente lamentava che il Giudice di secondo grado non avesse riconosciuto il suo diritto alla percezione degli utili risultanti dalla rettifica dei precedenti bilanci d’esercizio, operata dagli amministratori della società per azioni della quale la ricorrente era azionista in ottemperanza a quanto disposto dalla pronuncia che aveva dichiarato la nullità dei bilanci stessi. La ricorrente, inoltre, censurava la sentenza di secondo grado, in quanto, a suo dire, escludeva la violazione dei principi di chiarezza e precisione nella redazione dell’ultimo bilancio d’esercizio (bilancio al 31.07.2005), approvato con la stessa delibera del 21.11.2005
Il Supremo Collegio, condividendo la conclusione del Giudice di secondo grado circa l’esclusione del diritto della ricorrente alla percezione degli utili, ha precisato che dall’art 2433 c.c. non discende il diritto degli azionisti alla distribuzione degli utili, poiché tale diritto sorge soltanto nel momento in cui la maggioranza assembleare dispone l’erogazione ai soci. L’assemblea, infatti, può decidere di accantonare gli utili ovvero di reimpiegare gli stessi nell’interesse della società.
Orbene, nella vicenda in esame la delibera assembleare del 21.11.2005 aveva disposto “il riporto a nuovo del residuo degli utili” dei bilanci rettificati (relativi agli anni 1979, 1980 e 1981), conformemente, peraltro, a quanto stabilito dallo statuto sociale vigente nel 2005. Ne conseguiva che in capo alla ricorrente non sussisteva alcun diritto di partecipare alla percezione dei dividendi.
Il ricorso veniva rigettato anche con riferimento alla seconda censura sollevata dall’appellante e relativa al diritto del socio a far valere la pretesa violazione dei principi di chiarezza e veridicità dei bilanci.
Secondo la ricostruzione della ricorrente, il bilancio d’esercizio al 31.07.2005 violava i principi sanciti dall’art. 2423 comma 2 c.c. e pertanto doveva considerarsi nulla la delibera con cui lo stesso bilancio era stato approvato. Nel dettaglio, la ricorrente asseriva che il bilancio approvato con la delibera oggetto d’impugnazione (bilancio al 31.07.2005) ometteva di indicare dati emergenti della rettifica operata sui bilanci relativi agli anni 1979, 1980 e 1981.
Il principio di continuità dei valori di bilancio trova applicazione anche nel caso in cui l’esattezza o la legittimità del bilancio dell’anno precedente sia stata messa in discussione in sede contenziosa. Il dovere degli amministratori di apportare al bilancio le modifiche imposte dalla sentenza che definisce la controversia sorta sull’esattezza e la legittimità del bilancio, nasce soltanto con il passaggio in giudicato della pronuncia. Pertanto, contrariamente a quanto asserito dalla ricorrente, i bilanci rettificati non dovevano avere necessariamente effetto sul bilancio successivo alla delibera relativa all’approvazione dei bilanci rettificati.
L’assemblea, nel caso in esame, ha rettificato i bilanci precedentemente impugnati (relativi agli anni 1979, 1980 e 1981), per effetto del giudicato formatosi con la pronuncia resa dalla Cassazione sull’impugnativa dei precedenti bilanci (Cass.n. 23976/2004). Tale rettifica, come accertato dalla stessa sentenza impugnata, è conforme alle delibere di approvazione dei bilanci successivi a quelli impugnati, dichiarate valide o considerate tali, in quanto non impugnate (le delibere di approvazione dei bilanci dal 1982 al 2005 non hanno infatti dato luogo ad alcuna contestazione).
I giudici di Piazza Cavour hanno quindi condiviso l’assunto della Corte d’appello, ribadendo che la delibera del 21.11.2005 è immune dalle censure concernenti i principi di chiarezza e di veridicità del bilancio, poiché i bilanci rettificati non dovevano produrre alcun effetto sul bilancio al 31.07.2005.
- Pubblicato il Società e Impresa
Fallimento, transazione e bancarotta
La transazione con la curatela costituisce una attenuante di cui il giudice penale deve tenere conto.
La Suprema Corte, con la sentenza n. 8644/2016, sembra aver premiato la tenacia dell’amministratore di una srl, poi dichiarata fallita, sul quale pendeva un procedimento con l’accusa di bancarotta fraudolenta patrimoniale.
L’amministratore aveva visto disattese le proprie aspettative sia nel primo che nel secondo grado di giudizio, ma la Cassazione ha ribaltato il verdetto finale.
La motivazione? L’imputato aveva raggiunto un accordo transattivo con la Curatela con cui si accollava parte del danno arrecato alla fallita.
Tale ammissione di responsabilità ha consentito all’uomo di poter chiedere al giudice penale la riduzione della pena.
Il giudice di prime cure ha respinto la richiesta dell’uomo che, avanti alla corte d’appello, ha impugnato la sentenza, rilevando, altresì, l’eccessività della pena irrogatagli.
La Corte d’appello, ribadisce l’orientamento manifestato dal Tribunale, stavolta perché la riduzione della pena sarebbe stata richiesta in virtù di un generico riferimento, peraltro non documentato, ad una transazione raggiunta dall’uomo con il Fallimento.
La Suprema Corte ha annullato la sentenza e ha disposto la trasmissione degli atti alla Corte d’appello intimandola ad uniformarsi all’indirizzo per cui non è da ritenere motivato il rigetto per inammissibilità della richiesta di riduzione della pena perché rappresentata in modo generico, qualora l’accordo transattivo risulti dagli atti di causa.
Contratti di investimento
Violazione degli obblighi informativi e nullità del contratto di investimento
La Corte di Cassazione, con sentenza del 9 febbraio 2016 n. 2535, ha affrontato il tema degli obblighi informativi posti in capo ad un intermediario finanziario nell’ambito dei contratti di investimento conclusi con i clienti. Il Collegio, nel richiamare alcuni principi da tempo affermati in giurisprudenza, ha avuto modo di precisare la portata e l’ampiezza degli obblighi di diligenza e trasparenza che incombono sull’intermediario, al fine di tutelare ed agevolare la clientela nel compimento di consapevoli scelte di investimento; statuendo che il mancato rispetto di detti obblighi informativi determina la nullità dei contratti di investimento.
La vicenda posta al vaglio del Corte trae origine dal caso di due investitori che, nell’anno 2000, stipulavano un contratto di acquisto di titoli della società “Cirio” con il Banco Ambrosiano Veneto (oggi Intesa San Paolo s.p.a.) per l’importo di € 320.000,00 e l’anno successivo effettuavano una nuova operazione di investimento per € 60.000,00. Detti investitori, nell’anno 2004, a poco più di un anno dal fallimento di alcune società del Gruppo Cirio, convenivano in giudizio l’istituto di credito, al fine di sentire dichiarare la nullità dei contratti di investimento, in quanto conclusi dalla banca in violazione degli obblighi di informazione imposti, secondo quanto previsto dalla normativa di riferimento (art. 21 del D.lgs n. 58 del 1998 – Testo Unico in materia di intermediazione finanziaria – e artt. 28 e 29 del Reg. CONSOB n. 11522 del 1998).
Il Giudice di prime cure rigettava la domanda avanzata dagli attori. In riforma dell’impugnata sentenza, la Corte D’appello, ravvisata la violazione degli obblighi di informazione che incombono sull’intermediario finanziario, condannava la banca Intesa San Paolo s.p.a al pagamento agli investitori di un importo di € 260.000,00, oltre agli interessi legali e alle spese. Avverso tale pronuncia ha proposto ricorso Intesa San Paolo s.p.a.
Il Collegio nella motivazione della sentenza in esame ha richiamato un principio già da tempo espresso in giurisprudenza, secondo il quale la banca intermediaria, prima di compiere operazioni di investimento, è tenuta a fornire all’investitore “un’informazione adeguata in concreto”, articolata in base alle esigenze del singolo rapporto e alla situazione finanziaria del cliente.
I soggetti abilitati a compiere operazioni finanziarie sono tenuti a fornire ai clienti informazioni adeguate circa la natura e le caratteristiche degli strumenti finanziari, il rating del prodotto, l’emittente e il rendimento degli strumenti ovvero sull’eventuale imminente default economico dell’emittente (art. 21 T.U. In materia di intermediazione finanziaria e art. 28 Reg. Consob, abrogato nel 2007, ma applicabile alla fattispecie in esame). Gli intermediari, al fine di effettuare operazioni di investimento, tengono conto delle informazioni relative ai servizi di investimento prestati, astenendosi dal compiere, per conto dei clienti investitori, operazioni non adeguate e non consapevoli (art .29 Reg. CONSOB 11522/1998).
La Corte ha precisato che l’operatività dell’obbligo informativo della banca non trova alcuna limitazione nell’ipotesi in cui i clienti siano investitori abituali, che in precedenza abbiano già acquistato altri titoli ad rischio, perchè detta circostanza non è sufficiente ad attribuire loro la qualità di “operatori qualificati”, così come delineata dall’art. 31 comma 2 del Reg. CONSOB n. 11522/1998. La qualità di operatori qualificati, infatti, presuppone la sussistenza in capo a detti soggetti, sia persone fisiche che persone giuridiche, di specifiche competenze ed esperienze in materia di operazioni in strumenti finanziari.
La professionalità e la diligenza richiesta all’intermediario finanziario non trovano limitazioni nemmeno con riferimento al caso di ordini vincolanti impartiti dal cliente e relativi al compimento di operazioni di investimento rischiose. In dette circostanze, la banca, consapevole del rischio sotteso all’investimento, ha la facoltà di recedere dall’incarico, ai sensi dell’art 24, comma 1, lettera d) D.lgs. n. 58/1998 ( T.U. Delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria), in quanto ordini di investimento integrano una giusta causa di recesso dal mandato, secondo quanto previsto dall’art 1727 comma 1 c.c.
L’intermediario finanziario deve quindi adottare una condotta altamente professionale e prudente, finalizzata a tutelare il cliente e a segnalare a quest’ultimo l’eventuale inadeguatezza delle operazioni di investimento che intende compiere.
Detti profili di professionalità e diligenza non sono stati ravvisati nella condotta della banca Intesa San Paolo, che si era limitata a fornire una generica dichiarazione rivolta agli investitori (“non esiste alcuna garanzia di mantenere invariato il valore dell’investimento”), senza indicare agli stessi le caratteristiche del titolo, la natura dell’emittente e, in modo particolare, senza segnalare ai clienti che il crollo delle obbligazioni della Cirio era imminente, al momento della sottoscrizione del contratto di investimento.
Il collegio, alla luce dei principi di diligenza richiamati, ha rigettato tutti i motivi di ricorso, affermando che gli investitori, in conformità alla più recente giurisprudenza sul punto (Cass. 18039/2012), avevano ritualmente allegato l’inadempimento informativo della Banca e il nesso causale tra detto inadempimento e il pregiudizio lamentato. Al contrario, la Banca non aveva assolto l’onere della prova su di essa incombente e relativo alla dimostrazione dell’assolvimento degli obblighi informativi posti a suo carico.
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