Valutazione di impresa
I principi italiani di valutazione e la redazione dei bilanci
Il 1 gennaio 2016 sono entrati in vigore in Italia i principi italiani di valutazione (Piv), emanati dall’OIV (Organismo italiano di valutazione). Tali principi costituiscono delle vere e proprie linee guida per i professionisti che operano nel campo delle valutazioni economiche e trovano applicazione volontaria e, unitamente ai principi contabili e di revisione, mirano a migliorare la qualità dei bilanci.
Tuttavia, i Piv hanno un ambito di applicazione più ampio, in quanto delineano una serie di protocolli differenziati che i professionisti possono osservare quando effettuano una stima economica, indipendentemente dalla finalità della stima stessa. Detti principi, infatti, individuano una serie di linee guida differenziate in funzione dell’oggetto della stima (azienda, macchinari, strumenti finanziari, partecipazioni) e della finalità della stima stessa (cessione di ramo d’azienda, fusione, recesso ecc).
I Piv, inspirati agli International valuation standards emanati dall’IVSC (International valuation standard council), sono modulati al contesto economico del Nostro Paese e puntano a ridurre i margini di discrezionalità dei professionisti nell’effettuare valutazioni economiche innalzando così lo standard qualitativo dei valutatori e la fiducia negli stessi da parte degli operatori economici e degli utilizzatori. La valutazione economica, infatti, deve condurre ad un giudizio di valore chiaro e motivato e suscettibile di essere replicato.
Pertanto i Piv puntano a chiarire il processo che deve essere seguito dall’esperto e definiscono cosa il professionista non può trascurare nel corso della stima al fine di uniformare il processo di valutazione e identificano cinque opzioni comuni a tutte le attività (valore di mercato, valore di investimento, valore negoziale equitativo, valore convenzionale), che il valutatore potrà scegliere di utilizzare a seconda della finalità della stima da effettuare.
Concordato e gruppo di imprese
Il concordato di gruppo é inammissibile in assenza di una legislazione ad hoc
Cass. Civ. 13 ottoobre 2015 n. 20559
IL CASO – Quattro società di capitali appartenenti al medesimo gruppo, al fine di presentare un’unica proposta di concordato, costituiscono una società di persone in cui conferiscono il proprio patrimonio aziendale. La proposta che segue mantiene la distinzione tra le masse delle società di ciascuna delle società di capitali socie e conferenti. Il concordato viene omologato e le censure formulate in appello da quattro creditori vengono respinte dalla Corte d’appello genovese. I creditori e l’agenzia delle entrate interpongono ricorso in cassazione.
La Cassazione, con una motivazione a dire il vero asciutta, aderisce alla prospettazione dei creditori.
I giudici di piazza Cavour sottolineano, infatti, che nella realtà economica odierna le imprese operanti sul mercato sono frequentemente organizzate in gruppi di società e che, tuttavia, l’attuale sistema del diritto fallimentare, “non conosce il fenomeno, non dettando alcuna disciplina al riguardo, che si collochi sulla falsariga di quella enunciata in tema di amministrazione straordinaria alla L. 8 luglio 1999, n. 270, art. 80 e ss., o dal D.L. 23 dicembre 2003, n. 347, art. 4 bis, sulla ristrutturazione industriale di grandi imprese in stato di insolvenza, convertito, con modificazioni, in L. 18 febbraio 2004, n. 39, o con riguardo ai gruppi bancari od assicurativi insolventi”.
Nondimeno, la Corte non si astiene dal formulare alcune osservazioni che possono costituire utili principi operativi che devono presiedere, nel silenzio del legislatore, alle domande concordatarie connesse per il fatto di essere relative a societá appartenenti al medesimo gruppo. In particolare:
- Il coordinamento tra procedure di concordato che hanno una diversa competenza territoriale può operare solo sul piano materiale non operando il meccanismo processuale della connessione e la conseguente attrazione di una procedura a foro diverso.
- In presenza di più imprese appartenenti allo stesso gruppo, in assenza di una disciplina che regoli la materia diversamente, sarà necessario presentare una domanda per ciascuna società del gruppo.
- Occorre tenere distinte le masse attive e passive, che conservano la loro autonomia giuridica, dovendo restare separate le posizioni debitorie e creditorie delle singole società, onde evitare che i creditori delle società meno capienti concorrano inammissibilmente con quelli delle società più capienti e che vengano alterati i meccanismi di voto e di formazione del consenso sulle proposte concordatarie.
La Cassazione, pertanto, non coglie gli stimoli espansivi offertigli dalla giurisprudenza di merito (si erano espressi favorevolmente, tra gli altri, Trib. Terni 30 dicembre 2010, Trib. Roma 7 marzo 2011, Trib. La Spezia 2 maggio 2011, App. Genova 23 dicembre 2011, Trib.Benevento 18 gennaio 2012; Trib. Roma 25 luglio 2012; App. Roma 5 marzo 2013; Trib. Rovigo 5 novembre 2013 e, più recentemente, Trib. Ferrara 8 aprile 2014 e Trib. Palermo 9 giugno 2014) ribadendo una netta chiusura ad una valorizzazione della nozione di gruppo di imprese. Non rimane che attendere una disciplina esplicita dell’insolvenza di gruppo che dovrebbe essere oggetto dei lavori della commissione Rordorf il cui progetto di riforma organica dovrebbe essere in dirittura di arrivo.
Opzione put e patto leonino
Un’opzione put, pur dando facoltà alla parte di cedere la sua partecipazione evitando di subire le perdite sociali può non costituire patto leonino
Con sentenza n. 9301/2015 del 06/08/2015, la Sezione Specializzata in materia d’impresa del Tribunale di Milano si è espressa circa l’eventuale qualificabilità della c.d. “opzione put” come patto leonino contrario al dettato normativo dell’art. 2265 c.c.
Va innanzi tutto chiarito cosa si intenda per “opzione put”. Essa può essere definita come ilcontratto in base al quale l’acquirente dell’opzione acquista il diritto, ma non l’obbligo, di vendere un titolo (azioni o quote di società in genere) ad un prezzo e ad una scadenza stabiliti, mentre l’altra parte, nel caso in cui vi sia esercizio di detto diritto, si impegna ad acquistare il titolo di cui avrà già incassato il premio.
Richiamandosi ad una costante giurisprudenza di legittimità (si vedano ad esempio Cass. Civ. Sez. I, n.24376/2008; Cass. Civ. Sez. II n. 642/2000; Cass. Civ. Sez. I n. 8927/1994) il Tribunale di Milano ha indicato due criteri specifici per la qualificazione del patto leonino: si applica l’art. 2265 c.c. esclusivamente nei casi in cui sussista l’esclusione dalle perdite o dagli utili di un socio in modo costante e assoluto e che tale esclusione non risponda ad interessi meritevoli di tutela.
L’opzione put, pertanto, non è contraria alla legge e in particolare all’art. 2265 c.c. se si inserisce in un più grande quadro complessivo tale da poterne escludere la non rispondenza ad interessi degni di protezione.
Nel merito, l’opzione prevista nel contratto tra le parti non poteva essere classificata come contraria alle norme di legge in quanto prevedeva un limite temporale, mancando quindi di costanza e assolutezza. Inoltre, la stessa si inseriva in un’operazione di integrazione societaria e industriale tra le due parti in causa finalizzata ad ampliare la quota di mercato nazionale ed internazionale di una delle due che, a causa della sua delicatezza, rendeva necessaria una tutela specifica.
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La cessione del ramo d’azienda e la circolazione dei debiti
Un equilibrio instabile: la Cassazione tra circolazione dell’azienda e protezione dei creditori
Cass. Civ. 30 giugno 2015, n.13319
IL CASO – Una macelleria fornisce un’ingente quantità di carne ad un piccolo supermercato maturando un credito significativo. Il supermercato viene ceduto ad una catena di grande distribuzione ma l’ex proprietario mantiene la sezione macelleria. La cessione pertanto viene configurata come cessione di un ramo d’azienda. La macelleria, rimasta insoddisfatta, cita in giudizio la catena di distribuzione sostenendo che, in quanto cessionaria dell’azienda, debba rispondere dei debiti dalla cedente. La Cassazione dà torto all’attore sottolineando che, in caso di cessione di un ramo di azienda, i debiti di cui risponde il cessionario sono solo quelli funzionalmente collegati al ramo ceduto a prescindere dal fatto che il ramo ceduto abbia tenuto o meno una sua contabilità distinta
LA QUESTIONE – La Cassazione torna ad occuparsi del regime di circolazione dei debiti in caso di cessione di azienda. Come noto, l’articolo 2560 cod.civ. regola la sorte dei debiti relativi ad un’attività ceduta nel senso di trasferire al cessionario solo quei debiti che trovino riscontro nella contabilità della azienda ceduta. Recentemente (Cass. Civ. 21 dicembre 2012, n. 23828), i giudici di Piazza Cavour hanno affermato che l’art. 2560 cod. civ. realizza un bilanciamento in cui, alla solidarietà passiva del cedente e del cessionario per i debiti iscritti nelle scritture contabili dell’azienda ceduta, si accompagna una tutela rafforzata del cessionario cui è garantita dall’ordinamento la possibilità di avere la certezza dell’entità della massa debitoria associata all’azienda acquisita. Corollario della natura eccezionale della norma é che la stessa va interpretata in modo restrittivo e che, pertanto, non é sufficiente una identificazione parziale o incompleta del debito nelle scritture contabili, né é sufficiente la conoscenza aliunde dello stesso per potere legalmente opporre il debito al cessionario.
La questione all’attenzione della Corte nel caso di specie é invece più articolata e di complessa soluzione. Infatti, la cessionaria ha acquisito unicamente un ramo d’azienda con riferimento al quale non esiste una contabilità autonoma. La cedente, pertanto, con la vendita ha incisivamente diminuito la propria capacità patrimoniale ed é per questo che l’attore fa valere le sue domande nei confronti del cessionario.
Tuttavia, la Cassazione ha ritenuto di ritrovare l’equilibrio tra necessità di assicurare la sicura circolazione dell’azienda e la tutela dei creditori del cedente affermando la prevalenza della prima sulla seconda. Secondo la Cassazione, il cessionario diviene solidalmente responsabile con il cedente solo per i debiti funzionalmente collegati al ramo ceduto e senza che l’assenza di una autonoma contabilità abbia alcuna rilevanza.
CONSIDERAZIONI – La decisione in commento rivela un netto favore verso soluzioni che garantiscono una parcellizzazione funzionale dell’impresa ma finisce per trascurare quei creditori che assumono la decisione di contrattare con una impresa contando su una nozione vasta di garanzia patrimoniale che tiene in considerazione e valorizza l’articolazione complessa dell’impresa con cui contrattano. Ove questo orientamento si consolidasse, la cessione di ramo d’azienda si candida a divenire un validissimo strumento per effettuare spinoffs che valorizzino le attività in utile di un’impresa separandole dalle attività in perdita. Infatti, a differenza di quanto disposto in tema di scissione, dove ai sensi dell’art. 2506 quater cod. civ. “ciascuna società è solidalmente responsabile, nei limiti del valore effettivo del patrimonio netto ad essa assegnato o rimasto, dei debiti della società scissa non soddisfatti dalla società cui fanno carico”, con la cessione del ramo di azienda il cessionario potrebbe limitare la proporia responsabilità alle obbligazioni funzionalmente collegate all’azienda.
Ciò tuttavia andrà a discapito della garanzia dei creditori della cedente e potrà comportare la necessità per quest’ultimi di introdurre, in sede di contrattazione, clausole che limitino ex ante il potere di trasferire le componenti attive dell’azienda. Se ciò succedesse, la lettura dell’art. 2560 cod. civ. adottata dai giudici di piazza Cavour, nata con l’obiettivo di favorire la circolazione dell’azienda e la sicurezza dei traffici, potrebbe sortire esattamente l’effetto opposto.
- Pubblicato il Accordi, Ristrutturazioni e procedure concorsuali, Società e Impresa, Varie
Revocatoria e conoscenza dello stato di insolvenza
Revocatoria per il pagamento di forniture.
Con sentenza Cass. 17.906/15, la prima sezione della Corte di Cassazione ha ribadito che, al fine di provare la conoscenza dello stato di insolvenza, il giudice si può valere di elementi indiziari e che, tra essi, figurano un ritardo sistematico nel pagamento, la rinegoziazione di piani di dilazione concordati, la richiesta di subordinare la nuova fornitura al pagamento di prestazioni precedenti. Non ha avuto successo il tentativo di affermare che il ritardo sistematico aveva reso usuale e, quindi, non rivelatore dello stato di insolvenza il pagamento effettuato con significativo ritardo.
Impugnazione di bilancio e arbitrato
CLAUSOLA COMPROMISSORIA E BILANCIO
La Corte di cassazione (Cass. 13031/14) è tornata sul tema della compromettibilità delle impugnative di bilancio cassando una sentenza di merito che aveva aperto una breccia nel consolidato orientamento della non compromettibilità delle delibere di approvazione del bilancio di esercizio. La Cassazione ha ribadito la non rimettibilità ad arbitrato delle “controversie che hanno ad oggetto l’accertamento della violazione delle norme inderogabili dirette a garantire la chiarezza e la precisione del bilancio, la cui inosservanza determina una reazione dell’ordinamento svincolata da qualsiasi iniziativa di parte e rende la Delib. di approvazione illecita e quindi nulla (cfr., fra molte, Cass. nn.18611/011, 3772/05, 3322/98,1739/88)”.
Con una motivazione certamente condivisibile e che intende affermare uno standard di giudizio che assicuri la prevedibilità delle soluzioni giurisprudenziali, la Corte ha affermato che “la nozione di indisponibilità cui deve farsi riferimento per la delimitazione dell’ambito di competenza arbitrale (tanto ai sensi del D.Lgs. n. 5 del 2003, art. 34, comma 1, quanto dell’art. 806 c.p.c., comma 1, il cui testo è, sul punto, sostanzialmente coincidente) non può essere circoscritta ai diritti contemplati dalla predetta disposizione codicistica, ma deve ritenersi comprensiva di tutte le situazioni sostanziali sottratte alla regolamentazione dell’autonomia privata, ovvero disciplinate da un regime legale che escluda qualsiasi potere di disposizione delle parti, nel senso che esse non possono derogarvi, rinunciarvi o comunque modificarlo (Cass. n. 791/011)”.
Superando poi la tesi che ritiene ad ogni modo compromettibile il diritto all’azione del socio, la Cassazione afferma che “è d’altro canto evidente che, entro i limiti temporali previsti dal legislatore, il diritto d’azione è sempre disponibile e che il titolare di qualsivoglia diritto sostanziale può sempre rinunciare ad ottenerne l’accertamento in via giudiziale; ma, ove si tratti di un diritto sostanziale indisponibile, egli non può certo rinunciare a ciò che ne forma oggetto, autorizzando la controparte ad ignorare o ad aggirare il contenuto della norma che lo contempla”.
Nella sostanza, il test che va effettuato, per valutare la componibilità in arbitrato di una controversia, riguarda la disponibilità del diritto controverso e non, viceversa, la disponbilità del diritto potestativo all’azione che l’attore possa fare valere.
- Pubblicato il Società e Impresa, Varie
Privacy e responsabilità da reato degli enti (D.Lgs. 231/01)
Il Decreto legge del 14 agosto 2013, n. 93 recante “Disposizioni urgenti in materia di sicurezza e per il contrasto della violenza di genere, nonché in tema di protezione civile e di commissariamento delle province” contiene, tra le sue pieghe, importanti modifiche alla disciplina della responsabilità da reato degli enti. Il Governo Letta, purtroppo, non si è affrancato dalla cattiva abitudine di introdurre, nel medesimo decreto legge, norme regolanti materie disparate e spesso carenti dei requisiti di necessità e urgenza. Così, il c.d. “decreto sul femminicidio” contiene disinvoltamente norme sull’illegittimo trattamento dei dati e sull’abuso dei mezzi di pagamento con carta.
Le norme introdotte sono destinate, se confermate in sede di conversione, ad avere un significativo impatto sulla vita delle imprese, poiché aggiungono al novero di reati di cui al D.Lgs. 231/01 fattispecie che presentano un alto rischio tipico per l’impresa.
Infatti, il decreto legge ha previsto l’estensione della responsabilità amministrativa degli enti ai delitti di cui agli articoli 640 ter cod.pen., 55 comma 9 d.lgs. 231/2007 ed ai delitti di cui alla Parte III, titolo III, Capo II del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196 (“Codice della Privacy”): si tratta rispettivamente dei reati di (1) frode informativa con sostituzione d’identità digitale, (2) di utilizzo indebito, falsificazione o alterazione di carte di credito o pagamento, (3) trattamento illecito di dati, nonché (4) di false dichiarazioni o inosservanza dei provvedimento del Garante della Privacy.
Appare evidente che, almeno l’estensione della responsabilità degli enti al reato di trattamento illecito di dati è una novità legislativa particolarmente importante soprattutto per le imprese che promuovano i propri servizi online o tramite sollecitazione mail e comporta la necessità di mettere a punto procedure rigorose e controlli adeguati.
Va ricordata, in particolare, la disciplina prevista dall’art. 167 Codice Privacy che punisce chiunque, al fine di trarne profitto o di recare ad altri un danno, procede al trattamento illegittimo di dati personali se dal fatto deriva nocumento ovvero se il fatto consiste nella comunicazione o diffusione. La giurisprudenza di legittimità, pur sottolineando che il trattamento illecito di dati è una fattispecie a pericolo concreto (e che, pertanto, vi debba essere una effettiva messa in pericolo del bene giuridico tutelato), ha interpretato in modo molto estensivo il concetto di nocumento, ritenendo che lo stesso possa essere non solo economico, “ma anche più immediatamente personale, come, ad esempio la perdita di tempo nel vagliare mail indesiderate e nelle procedure da seguire per evitare ulteriori rinvii” (così Cass. Pen. Sez. III sentenza del 24 maggio 2012, n.23798).
Al fine di chiarire l’ambito oggettivo dell’art. 167 Cod.Privacy è utile ricordare la definizione legislativa di dato personale. Il legislatore infatti, con l’art. 40 d.l. 201 del 6 dicembre 2011 ha ridefinito la nozione di “dato personale” intervenendo sulle disposizioni generali del Codice della privacy: oggi per “dato personale” deve intendersi qualunque informazione relativa a persona fisica e per “interessato” deve intendersi “la persona fisica cui si riferiscono i dati personali”.
Pertanto, in corretta applicazione del principio di legalità e tassatività delle fattispecie penali, non si può condividere l’opinione espressa dal Garante nel provvedimento in ordine all’applicabilità alle persone giuridiche del Codice privacy (Provv. Del 20 settembre 2012 pubblicato in G.U. 268 del 16 novembre 2012 http://www.garanteprivacy.it/web/guest/home/docweb/-/docweb-display/docweb/2094932), il quale ha ritenuto che anche l’illecito trattamento dei dati delle persone giuridiche, se avvenuto in violazione dell’art. 130 Cod.Privacy, possa integrare il delitto in questione. Ove, però, si consolidi l’orientamento giurisprudenziale sopra indicato, ne potrebbe derivare che ogni sollecitazione alla mail di persone fisiche non previamente autorizzata ed effettuata per ragioni commerciali potrebbe ricadere nella definizione consegnata dall’art. 167 Codice Privacy.
Val la pena, pertanto, riportare l’attenzione ai molteplici documenti emessi dal Garante della privacy in tema di spamming per ricordare alcune importanti regole da seguire. In particolare un utile riferimento sono le linee guida in materia di attività promozionale e contrasto allo spam del 4 luglio 2013 recentemente pubblicate (G.U. n. 174 del 26 luglio 2013).
Elemento cardine della disciplina è l’art. 13 codice privacy: l’attività promozionale è subordinata alla raccolta di un preventivo consenso da parte dell’interessato che deve essere libero ed informato. Senza un consenso preventivo non è possibile inviare email promozionali come chiarito ormai da tempo dal Garante (v. provvedimento del 29 maggio 2003).
Il consenso può intendersi reso in modo libero se non è preimpostato o condizionato alla fornitura di servizi che con il trattamento non abbiano alcun collegamento funzionale. Inoltre, il consenso deve essere specifico per ciascuna eventuale finalità perseguita. Il Garante ha ritenuto che, in un’ottica di semplificazione, un unico consenso può essere acquisito con riferimento sia all’esercizio dell’attività tradizionale di promozione che all’attività di promozione tramite sistemi automatizzati ai sensi dell’art. 130 Cod. Privacy. In questo caso, tuttavia, l’informativa dovrà specificare che la raccolta dei dati è finalizzata ad ambedue le modalità di promozione.
Per quanto riguarda la cessione dei dati a terzi e, quindi, l’utilizzo di database creati da altri soggetti, il Garante ha specificato che l’informativa dovrà indicare chiaramente che la raccolta dei dati personali è finalizzata alla cessione dei dati a terzi che dovranno essere indicati nominativamente o con riferimento alla categoria merceologica o economica di appartenenza. Il consenso così raccolto sgombra il campo al trattamento dei dati ai terzi acquirenti senza bisogno di un ulteriore autorizzazione. Va in ogni caso sottolineata la necessità che la promozione o sollecitazione pubblicitaria indichi un idoneo indirizzo dove l’interessato possa esercitare i diritti di rettifica e veto disposti dall’art. 7 Cod. Privacy, che deve potere essere esercitato nella stessa forma in cui viene effettuata la promozione: per cui una sollecitazione effettuata a mezzo mail dovrà indicare un indirizzo di posta elettronica dove esercitare i diritti di cui all’art. 7.
Come noto, il consenso ove non riguardi dati sensibili, non necessita di forma scritta ma comunque onera il responsabile del trattamento del dovere di provare quando e come il consenso è stato raccolto. Un alleggerimento degli oneri previsti dal Codice privacy viene assicurata dall’art. 130 Cod.Privacy che consente il c.d. “soft spam” cioè la promozione di servizi analoghi o collegati a prestazioni di cui l’interessato abbia già usufruito, in assenza di specifica autorizzazione.
Un aspetto cui, invece, si dovrà prestare particolare attenzione è la regolamentazione delle promozioni effettuate a mezzo di agenti commerciali. Può infatti accadere che il trattamento illecito sia commesso da agenti ma nell’interesse del preponente. In questa ipotesi, l’individuazione del responsabile del trattamento dovrà prendere in considerazione una serie di elementi extracontrattuali come il controllo esercitato dal preponente o la rappresentazione data ai terzi circa la prestazione dei servizi. Il Garante ha già in diverse occasioni ritenuto che il responsabile del trattamento fosse il preponente ogni qualvolta questi abbia esercitato un potere di controllo anche in virtù della subordinazione economica dell’agente. L’aspetto appare evidentemente delicato e dovrà essere affrontato con attenzione per non incorrere nelle sanzioni di cui al D.Lgs. 231/01. Il Garante ha chiarito che il preponente debba in ogni caso nominare come responsabile del trattamento l’agente ed accertarsi se questi faccia uso di subagenti o incaricati garantendo che anche questi ultimi utilizzino correttamente i dati raccolti.
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