Lavoro e previdenza
I nuovi termini del contratto a tempo determinato.
L’1 novembre scattano i nuovi obblighi per i rinnovi.
Con il c.d. “Decreto dignità” (DL 87/2018 convertito in legge con L. 96/18) il governo ha inteso riformare alcuni profili importanti del rapporto di lavoro a tempo determinato, che pare essere divenuta la vera cartina di tornasole tra tutela del lavoro stabile e favore alla flessibilità. Il corpus normativo di riferimento continuano ad essere gli artt. 19-29 del D. Lgs. 81/2015, al quale il Decreto ha apportato limitate ma importanti modifiche. (altro…)
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Licenziamento del lavoratore in prova
La discrezionalità del recesso del datore di lavoro nel caso di lavoratore in prova
La Cassazione, con la sentenza n. 1180 del 18 gennaio 2017, si è espressa in ordine al licenziamento del lavoratore che abbia positivamente superato il periodo di prova. Nel riformare la pronuncia di merito, la Suprema Corte ha sottolineato che il potere discrezionale del datore di lavoro ai fini del recesso nel periodo di prova non è illimitato: pur ricordando che l’esito negativo del periodo di prova non deve essere motivato dal datore di lavoro, la Cassazione ha ribadito la nullità del licenziamento qualora il lavoratore riesca a dimostrare il positivo superamento del periodo di prova e ad imputare a motivo diverso, assimilabile a motivo illecito, la decisione del datore di lavoro di recedere dal rapporto stesso.
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INPS e Pensioni
L’INPS può rettificare le pensioni, ma non recuperare le somme già corrisposte
La Cassazione, con sentenza n. 482/2017, ha finalmente chiarito che l’INPS non può pretendere la restituzione delle pensione maggiorate corrisposte ai pensionati. La Suprema Corte autorizza l’ente erogatore a rettificare in ogni momento qualsivoglia errore commesso in sede di attribuzione o erogazione della pensione, senza tuttavia ammettere il recupero delle somme già corrisposte. Infatti, il recupero di dette somme è ammissibile solo se causato dal dolo del beneficiario della pensione.
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Finanziamento alle PMI nei mercati esteri
Contributi ai consorzi per l’internazionalizzazione nell’anno 2017
Nati in seguito alle disposizioni del D.L. 83/2012 i Consorzi per l’internazionalizzazione hanno ad oggetto la diffusione a livello internazionale dei prodotti delle piccole e medie imprese, allo scopo di supportare la permanenza delle stesse sui mercati esteri, al fine incrementare la conoscenza e la diffusione delle produzioni italiane presso i consumatori internazionali e contrastare così il fenomeno dell’italian sounding e della contraffazione dei prodotti alimentari.
Con decreto del 23.12.2016, il Ministero dello Sviluppo Economico ha delineato i requisiti, i termini e le modalità per ottenere i contributi stanziati nella legge di Stabilità per il finanziamento di dei consorzi nell’anno 2017.
Nel dettaglio, i contributi potranno essere erogati a Consorzi costituiti in forma di società consortile o cooperative di PMI industriali, artigiane, agricole, ittiche, turistiche o di servizi agroalimentari sedenti in Italia e aventi ad oggetto la diffusione internazionale dei prodotti. I contributi sono diretti a finanziare le iniziative tassativamente indicate dall’art 4 D.M.: partecipazione a fiere e saloni internazionali; eventi collaterali alle manifestazioni fieristiche internazionali; show-room temporanei all’estero; incoming di operatori esteri; workshop e/o seminari in Italia con operatori esteri; azioni di comunicazione sul mercato estero; attività di formazione specialistica per l’internazionalizzazione, destinata esclusivamente alle imprese partecipanti al progetto e registrazione del marchio consortile. I progetti dovranno coinvolgere almeno 5 PMI provenienti almeno da tre diverse regioni italiane e appartenenti allo stesso settore. I Consorzi con sede legale in Sicilia potranno avere struttura monoregionale e dovranno coinvolgere 5 PMI con sede nella stessa regione. Le iniziative che i Consorzi intendono avviare dovranno essere strutturate sotto forma di progetto e dovranno essere realizzate dal 01.01.2017 al 31.01.2017. Il decreto stabilisce dettagliatamente le spese ammissibili e quelle escluse dal contributo. Le domande di contributo, redatte secondo il modello allegato al decreto ministeriale, dovranno essere presentate entro il 28 febbraio 2017.
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Focus: La contrattazione di prossimità
Articolo 8, legge 148/2011: luci e ombre
L’esigenza di flessibilizzare il mercato e le regole del lavoro per far fronte alla profonda crisi economica che ha travolto il nostro Paese nell’estate del 2011, ha indotto il Legislatore ad introdurre nell’ordinamento italiano la contrattazione di prossimità, disciplinata dall’art. 8 l. n. 148/2011.
In particolare, infatti, al fine di rilanciare l’economia e la competitività del nostro sistema produttivo, l’art. 8, comma 2 bis, l. n. 148/2011 consente alla contrattazione aziendale o territoriale di derogare in determinate materie alle norme di legge e dei contratti collettivi, affidando alle organizzazioni sindacali la facoltà di interloquire con le imprese al fine di raggiungere intese capaci di tutelare sia i lavoratori che le esigenze delle aziende.
La derogabilità alle disposizioni di legge è possibile purché:
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partecipino alla sottoscrizione soggetti collettivi qualificati;
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sia la maggioranza ad approvare la deroga;
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la deroga sia motivata da esigenze specifiche di particolare rilievo sociale;
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si rifletta su specifici istituti e materie
Il rispetto di tali “limiti interni” dovrebbe consentire di migliorare la qualità dei contratti di lavoro, di incrementare l’occupazione, di far emergere il lavoro irregolare, di gestire eventuali crisi aziendali e occupazionali, di incrementare competitività, salario, investimenti e avvio di nuove attività.
Fermo restando il rispetto di tali condizioni, lo stesso art. 8, comma 2 bis, impone altresì un “limite esterno”: vincola espressamente la derogabilità al rispetto della Costituzione, delle normative comunitarie e delle convenzioni internazionali in materia di lavoro.
Uno degli aspetti più innovativi e al contempo più critici introdotti dal disposto dell’art. 8, comma 2 bis, l. 148/2011, è il potere attribuito alla contrattazione di secondo livello di derogare, nell’ambito di specifiche materie, sia alla legge che ai CCNL, consentendo, in maniera rigidamente circoscritta, addirittura derogare “in pejus”.
I risvolti pratici di tali accordi potrebbero interessare diversi profili del rapporto di lavoro tra cui: la durata del periodo di prova e dell’apprendistato prima dell’assunzione definitiva, i contratti a termine, l’introduzione di nuove ipotesi di somministrazione di lavoro a tempo indeterminato, la disciplina dell’orario di lavoro e del licenziamento…
Nonostante il timore che uno strumento giuridico di tale portata potesse incidere significativamente sui delicati rapporti tra lavoratori e aziende (si pensi, tra gli altri, alla garanzia reintegratoria in caso di licenziamento illegittimo), non sembra realistico pensare che una più ampia flessibilità di contrattazione tra parti sociali consapevoli e responsabili possa intaccare tutele storicamente acquisite, essendo al contrario un’occasione di scambio tra vantaggi occupazionali e una maggior flessibilità capace di integrale il CCNL per meglio rispondere ai bisogni della/e azienda/e di una determinata area territoriale.
Ogni dubbio sulla legittimità costituzionale dell’art. 8 l. n. 148/2011 è stato fugato dalla pronuncia della Corte Costituzionale che, con la sentenza n. 221/2012, ha stabilito che non è fondata la questione di legittimità costituzionale sollevata in relazione a tale norma. Essa non contrasta, infatti, con gli artt. 39, 117, 118 Cost, (come asserito dalla Regione Toscana, promotrice della questione) poiché l’ambito delle intese previste dall’art. 8 l. n. 418/2011 non è illimitato, bensì tassativo e circoscritto all’organizzazione del lavoro e della produzione. La Corte ha chiarito che anche l’effetto derogatorio previsto dal comma 2 bis rispetta i parametri costituzionali: esso infatti, oltre ad operare nei soli ambiti previsti dal comma 2 ed avendo carattere eccezionale, non si applica al di fuori dei casi e i tempi dalla stessa considerati.
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Licenziamento e maternità
Tutela della lavoratrice madre fino al compimento del primo anno di età del figlio
Con la sentenza n. 475/2016 depositata l’11 gennaio 2017, la Cassazione ha rinnovato il divieto per il datore di lavoro di licenziare la lavoratrice madre dall’inizio della gravidanza sino al compimento di un anno di età del bambino, se non per colpa grave (da accertarsi nelle opportune sedi) della lavoratrice.
Qualora manchi tale colpa, il rapporto si considera come “mai interrotto” e, pertanto, alla lavoratrice dovrà essere corriposto lo stipendio “dal giorno del licenziamento sino alla rieffettiva ammissione in servizio”.
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Licenziamento per giustificato motivo oggettivo
Licenziamento sì se per incrementare gli utili
Con la sentenza n. 25201/2016 la Suprema Corte ha stabilito che, ai fini della legittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, l’andamento economico negativo dell’azienda non costituisce un presupposto fattuale al licenziamento che il datore di lavoro è tenuto a provare, ma è sufficiente che la migliore efficienza gestionale o l’incremento della redditività d’impresa siano la diretta conseguenza del mutamento dell’assetto organizzativo dell’azienda, realizzato attraverso la soppressione della posizione lavorativa individuata. Tale pronuncia della Cassazione sembra così legittimare il licenziamento per giustificato motivo oggettivo nei casi in cui vi sia l’intenzione del datore di lavoro di aumentare gli utili e ove la motivazione addotta al licenziamento non sia l’esigenza di far fronte ad uno stato di crisi ovvero a difficoltà economiche.
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INPS e amministratore
L’amministratore di società commerciale utilizzata per il mero godimento di immobili non è obbligato all’iscrizione alla gestione commercianti
Con due sentenze gemelle, la Corte di Cassazione (Cass. Civ., 30.12.2016 n. 27588/16 e Cass. Civ. 30.12.2016 n. 27589/16) ha affermato che “ai sensi dell’art. 1, comma 203, L. n. 662/1996, che ha modificato l’art. 29 L. n. 160/1975, e dell’art. 3 L. n. 45/1986, nelle società in accomandita semplice la qualità di socio accomandatario non è sufficiente a far sorgere l’obbligo di iscrizione nella gestione assicurativa degli esercenti attività commerciali, essendo necessaria anche la partecipazione personale al lavoro aziendale, con carattere di abitualità e prevalenza, la cui ricorrenza deve essere provata dall’istituto assicuratore”.
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Diritto ad un ambiente lavorativo sano
Responsabilità del datore di lavoro per i danni da fumo passivo.
Il datore di lavoro deve garantire ai dipendenti un salubre ambiente di lavoro, adottando misure sanzionatorie dirette ad arginare e prevenire il verificarsi di danni alla salute dei dipendenti, cagionati dal fumo passivo dei colleghi.
Tale principio è stato affermato da una recente pronuncia della Corte di Cassazione, Cass. Civ. Sez. lavoro del 03.03.2016, n. 4211, che pronunciandosi su un’annosa vicenda che vedeva contrapposti una lavoratrice, ormai in pensione, e l’emittente radiotelevisiva RAI ha riconosciuto la responsabilità contrattuale dell’emittente per non aver adottato misure idonee a prevenire la nocività dell’ambiente lavorativo, trasgredendo agli obblighi imposti dall’art 1218 c.c.
Nel dettaglio, l’espletamento di una CTU medico–legale nel corso del giudizio di merito aveva permesso di accertare e quantificare i danni subiti della giornalista (danno biologico e morale ragguagliati nella misura del 15%) e il nesso eziologico che legava tali pregiudizi all’esposizione al fumo passivo dei colleghi, protrattasi per tutta la durata del rapporto di lavoro.
In virtù di tali circostanze, la Corte d’Appello di Roma aveva riconosciuto il diritto della giornalista al risarcimento del danno subito; disattendendo le argomentazioni adottate dalla difesa dalla RAI, secondo le quali nessuna responsabilità per il danno subito era ascrivibile all’emittente, poiché la stessa aveva emanato specifiche circolari e direttive indirizzate ai dipendenti, che imponevano specifici divieti di fumare nell’ambiente di lavoro.
La giornalista, tuttavia, ha proposto ricorso per Cassazione avverso il punto della sentenza di secondo grado che aveva escluso la violazione dell’art 2103 c.c. Nell’ambito di tale giudizio ha proposto ricorso incidentale la RAI, assumendo, in relazione all’art 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e/o falsa applicazione dell’art 2087 c.c. per aver riconosciuto la responsabilità dell’emittente per “fumo passivo”.
La Corte di Cassazione, nel motivare la statuizione in esame, ha stabilito che il contratto di lavoro concluso tra il datore di lavoro e il dipendente pone a carico del primo l’obbligo di adottare le misure che si rendono necessarie a salvaguardare l’integrità fisica e la salute dei dipendenti, ai sensi dell’art 2087 c.c. Il datore di lavoro deve quindi adottare sanzioni disciplinari dirette ai dipendenti trasgressori del divieto di fumare nei locali di lavoro, in quanto misure idonee a contrastare i rischi da esposizione al fumo passivo. L’emanazione di circolari e direttive non rafforzate da effettive sanzioni non è sufficiente ad escludere la responsabilità del datore di lavoro per i danni cagionati ai dipendenti dal fumo passivo dei colleghi (c.d. approccio persuasivo e non repressivo). I Giudici di Piazza Cavour, in applicazione di detti principi, hanno rigettato il ricorso incidentale proposto dalla RAI, sottolineando che gli avvertimenti formulati dall’emittente con le direttive indirizzate ai lavoratori erano rimasti inattuati in quanto la RAI non aveva fornito prova di aver inflitto sanzioni ai dipendenti. Per tali motivi, la Corte ha ritenuto che la RAI non avesse adottato misure efficaci a contrastare i rischi derivati dall’esposizione al fumo passivo. Di conseguenza, l’emittente non aveva fornito la prova liberatoria richiesta per escludere la responsabilità contrattuale del datore di lavoro, ai sensi dell’art 1218 c.c.
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Controlli a distanza e Jobs Act: nuove prospettive
La Corte Europea dei diritti dell’uomo “assolve” il controllo dei lavoratori a distanza.
Con sentenza n. 61496/08 del 12 gennaio del 2016 la Corte Europea dei diritti dell’uomo ha precisato che, a determinate condizioni, il datore di lavoro ha il diritto di monitorare i propri dipendenti durante l’espletamento dell’attività lavorativa quando questi utilizzano strumenti informatici per svolgere le loro mansioni. Tale pronuncia ha ad oggetto il caso di un ingegnere rumeno licenziato dall’azienda ove lavorava per avere utilizzato l’account Yahoo Messanger dell’azienda, per fini personali, in violazione della policy aziendale che gli era stata esplicitamente resa nota.
La pronuncia in esame assume particolare interesse in quanto, in qualche modo, conforta la disciplina introdotta nel nostro Paese dal Jobs act in tema di controlli sugli strumenti utilizzati dai lavoratori per rendere la prestazione lavorativa. Come noto, il nuovo art 4 dello Statuto dei lavoratori, così come modificato dal D.lgs 151/2015, prevede espressamente che il datore di lavoro può effettuare controlli a distanza sugli strumenti utilizzati dal dipendente nello svolgimento delle sue mansioni, senza che il controllo venga preventivamente concordato con il sindacato di riferimento. Con tale innovazione, il legislatore ha inteso attribuire al datore di lavoro una maggiore libertà in tema di controllo dei dipendenti, obbligando però il datore ad informare i dipendenti delle modalità di utilizzo degli strumenti aziendali e delle modalità di effettuazione dei controlli nel rispetto del Codice della Privacy.
Nel dettaglio, i datori di lavoro che intendono evitare un uso indebito dei mezzi aziendali hanno l’obbligo di informare i lavoratori del divieto di utilizzare gli strumenti aziendali per motivi personali ed, inoltre, hanno l’obbligo di informare i dipendenti della circostanza che attraverso l’utilizzo di tali strumenti, può essere controllata a distanza l’attività lavorativa.
Considerata la larga diffusione di beni aziendali dai quali può derivare un controllo sull’attività lavorativa (navigatori, cellulari, tablet) appare evidente che la nuova frontiera interpretativa sarà costituita dalla identificazione degli strumenti utilizzati dal lavoratore per rendere la prestazione lavorativa e delle condizioni che rendono giustificati e proporzionati i controlli effettuati dal datore di lavoro, nel rispetto di quanto disposto dal Codice della Privacy.
Sul punto, è opportuno sottolineare che il Garante per la protezione dei dati personali, antecedentemente alla riforma, ha avuto modo di occuparsi di una questione concernente l’utilizzo dei dati acquisiti attraverso i Gps installati su dispositivi telefonici in dotazione a dipendenti, esprimendo parere positivo sull’uso di detti dati, a condizione che sia impedito l’accesso ad altri dati, quali sms, traffico telefonico e posta elettronica (Provv. n. 408/2014 dell’11settembre 2014 e Provv. n. 448/2014 del 9 ottobre 2014.
Appare pertanto importante che ciascuna azienda si doti di programmi di compliance che delineino in maniera chiara e trasparente la modalità di utilizzo dei dati relativi ai lavoratori.
(per maggiori informazioni o per un gradito feedback, restiamo a Vostra disposizione)
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