Concordato e transazione fiscale
La transazione fiscale non è obbligatoria ma la soddisfazione parziale del credito erariale privilegiato rende necessaria la finanza esterna per la soddisfazione dei creditori privilegiati di grado inferiore
Con una concisa ma chiara pronuncia (Cass. Civ. Sez. I 16066/2018), la prima sezione civile della Corte di cassazione ha ribadito alcuni principi cardine nel rapporto tra concordato con stralcio dei crediti erariali e transazione fiscale di cui all’art. 182 ter L.F.
La Corte ha ribadito la stabilità del principio secondo cui la transazione fiscale è un sub-procedimento facoltativo che può (ma non deve) essere avviato dal debitore che abbia la necessità ad ottenere il voto favorevole degli enti interessati.
In assenza della transazione fiscale, la corte ha ribadito l’applicabilità delle regole generali dello stralcio dei debiti privilegiati anche alle pretese erariali. Ne consegue, secondo la Corte, che qualora vi sia uno stralcio del debito privilegiato (con l’attestazione che comunque la soddisfazione riservata al creditore privilegiato è maggiore rispetto allo scenario liquidatorio), la soddisfazione dei crediti di grado inferiore presuppone l’utilizzo di finanza esterna. Infatti, argomentando in modo contrario, si consentirebbe una illegittima inversione dell’ordine dei privilegi.
Trasferimento della sede e fallimento
Il trasferimento della sede all’estero non salva dal fallimento
Una strategia, che negli ultimi anni, è stata spesso usata per evitare il fallimento è quella di trasferire all’estero la sede sociale. Decorso l’anno dalla cancellazione, infatti, il giudice italiano non può più pronunciare il fallimento della società. Ciò è vero, tuttavia, solo ove la società abbia cessato effettivamente di operare.
La Cassazione, con una sentenza emessa ai primi di gennaio (Cass. Civ. 4 gennaio 2017, n. 43), ha ribadito un principio consolidato (v. anche Cass. S.U. 5945/13) per cui se il trasferimento è fittizio, il giudice italiano rimane competente a valutare l’insolvenza di una società che non è stata cancellata per liquidazione totale dell’attivo e che continui ad operare. In tali casi, infatti, il termine annuale non opera.
Azione di responsabilità e fallimento
Quantificazione del danno. Il criterio dello “stato passivo” è solo residuale.
La Corte di Cassazione, con una sentenza emessa ai primi di gennaio (Cass. Civ. 3 gennaio 2017, n. 38) ha ribadito il principio secondo cui nelle azioni di responsabilità promosse dal curatore fallimentare il ricorso al criterio di quantificazione che fa riferimento alla differenza tra l’attivo e lo stato passivo accertato è solo residuale.
La corte ha infatti ribadito che tale criterio è un riferimento cui il giudice può ricorrere solo nei casi in cui voglia quantificare equitativamente il danno. L’attore, tuttavia, anche quando non abbia rinvenuto la contabilità sociale, deve allegare elementi da cui desumere l’inadempimento colpevole dell’amministratore della società fallita e la plausibilità dell’attribuzione del danno, nella misura così equitativamente determinata.
Termine annuale e concordato preventivo
Il concordato della società cancellata è inammissibile
Una società di persone propone una domanda di concordato preventivo successivamente alla cancellazione dal registro delle imprese. Revocato il procedimento concordatario, il tribunale dichiara la non fallibilità della società cancellata perchè è decorso più di un anno dalla cancellazione dal registro delle imprese. Rilevato un possibile contrasto con il dettato costituzionale per irragionevolezza dal momento che il debitore potrebbe capziosamente depositare una domanda di concordato al solo fine di fare decorrere il termine annuale, il Giudice remittente ha trasmesso gli atti alla Corte costituzionale.
La Corte (Corte Cost. 13 gennaio 2017, n. 9) ha affermato l’inammissibilità del ricorso per irrilevanza della questione, evidenziando come la giurisprudenza di legittimità non ritenga ammissibile un procedimento concordatario promosso da una società cancellata, dal moento che, con la cancellazione, viene meno il fine di risanamento proprio del procedimento concordatario.
Revocatoria e termini d’uso
L’anomalia nei termini di pagamento utilizzati tra le parti impedisce l’esenzione dalla revocatoria
Con una sentenza pubbicata in data 7 dicembre 2016 (Cass. Civ. 7 dicembre 2016 n. 25162), la Corte di cassazione ha finalmente preso posizione sulla nozione consegnata dall’art. 67 co. 3 lettera (a) che, come noto, esonera da revocatoria i pagamenti ricevuti nei “termini d’uso”.
La nozione di “termine d’uso” è stata interpretata variabilmente in dottrina e nella giurisprudenza di merito, facendo riferimento sia agli usi di settore, sia agli usi intercorsi tra le parti.
La Corte di cassazione nella pronuncia di dicembre ha aderito alla tesi secondo cui primario criterio interpretativo circa la sussistenza di un pagamento nei termini d’uso debba essere il rapporto intercorso tra le parti nel corso del tempo, acquisendo pertanto particolare rilievo la modifica di condizioni contrattuali o modalità di pagamento che possono essere sintomatici della consapevolezza dell’incipiente insolvenza.
Fallimento e società di fatto
Super società di fatto o responsabilità da eterodirezione. Il gruppo di imprese alle prese con il fallimento
Il 2016 è stato un anno ricco di pronunce importanti in tema di responsabilità e fallibilità del socio occulto, un tema che, da tempo ormai immemorabile, affascina e divide la giurisprudenza e gli studiosi senza un approdo definitivo.¹ Come noto, la teoria della società occulta è volta a consentire di aggredire, mediante la sottoposizione a fallimento, il patrimonio di soggetti che abbiano abusato dello schema tipico legale della società di capitali e della limitazione di responsabilità. L’effetto concreto è sostanzialmente simile a quello che, negli ordinamenti anglosassoni, viene realizza attraverso lo strumento del piercing the corporate veil: il socio tiranno acquisisce responsabilità per le obbligazioni sociali.
La notissima sentenza Caltagirone (Cass. Civ. 24 febbraio 1990, n.1439)² sembrava avere dato una sistemazione definitiva alla questione della fallibilità di una società occulta, aprendo la porta al superamento dell’autonomia patrimoniale perfetta. Tuttavia, detta porta sembrava essere stata, almeno in parte, richiusa dalla riforma del diritto societario che ha prediletto un’impostazione che fa leva su una forma di responsabilità risarcitoria e non patrimoniale all’interno del gruppo di società.
Infatti, in tale prospettiva, gli artt. 2497 ss. cod. civ. hanno previsto una forma di responsabilità che presuppone la dimostrazione dell’abuso dei principi di corretta gestione imprenditoriale e la valutazione di eventuali vantaggi compensativi che la partecipazione al gruppo comporta piuttosto che la sottoposizione dell’intero patrimonio del socio di fatto alle regole concorsuali.
Tuttavia, le limitazioni alla possibilità di affermare una responsabilità individuale del socio tiranno per direzione e coordinamento abusiva del gruppo hanno riaperto il ricorso alla teorica della estensione del fallimento alla holding persona fisica. Le Curatele, infatti, hanno promosso questa tipologia di azione che, certamente, appare uno strumento sufficientemente snello ed efficace contro gli abusi più gravi, ma che presenta alcune peculiarità.
La giurisprudenza più attenta che si è occupata della materia della holding di fatto (e in particolar modo della holding personale), infatti, ha richiamato l’esigenza di una verifica rigorosa degli elementi sintomatici dell’impresa. La Cassazione ha stabilito che sia “configurabile una holding di tipo personale allorquando una persona fisica, che sia a capo di più società di capitali in veste di titolare di quote o partecipazioni azionarie, svolga professionalmente, con stabile organizzazione, l’indirizzo, il controllo ed il coordinamento delle società medesime, non limitandosi, così, al mero esercizio dei poteri inerenti alla qualità di socio. A tal fine è necessario che la suddetta attività, di sola gestione del gruppo (cosiddetta holding pura), ovvero anche di natura ausiliaria o finanziaria (cosiddetta holding operativa), si esplichi in atti, anche negoziali, posti in essere in nome proprio, fonte, quindi, di responsabilità diretta del loro autore, e presenti altresì obiettiva attitudine a perseguire utili risultati economici, per il gruppo e le sue componenti, causalmente ricollegabili all’attività medesima” (in questo senso Cass. S.U. 29 novembre 2006, n. 25275).³ Tuttavia non si è mancato di rilevare che, spesso, la giurisprudenza si è accontantata di un accertamento superficiale della sussistenza di una vera e propria attività di impresa.
In questo quadro, si è sviluppato il contrasto giurisprudenziale tra quelle corti di merito che hanno affermato la possibilità di ricorrere in via analogica alla estensione del fallimento prevista dall’art. 147 L.F. anche nel caso in cui il socio occulto fosse una società di capitali (4) e quelle corti che, viceversa, hanno ritenuto impossibile tale estensione (5). Il contrasto ha dato, altresì, origine a due pronunce della Corte costituzionale che, chiamata a valutare l’incostituzionalità della norma, ha dato origine a due ordinanze, Corte Cost. 12 dicembre 2014, n. 276 e Corte Cost., 29 gennaio 2016, n.15 entrambe di rigetto.
Le corti che hanno sostenuto l’impossibilità di estendere analogicamente l’art. 147 L.F. alle società di capitali hanno fatto leva prevalentemente su un’argomentazione di carattere letterale. Il fatto che una società di capitali possa essere socia di una società di persone ha certamente eliminato un limite concettuale molto forte alla fallibilità della società occulta; tuttavia, l’articolo 2361 comma 2 cod. civ. prevede che “l’assunzione di partecipazioni in altre imprese comportante una responsabilità illimitata per le obbligazioni delle mdesime deve essere deliebrata dall’assemblea” e, in modo analogo, l’art. 111 duodecies disp.att. cod.civ. prevede obblighi informativi per le società di persone partecipate da enti aventi autonomia patrimoniale perfetta. Pertanto, ne discende l’impossibilità per una società di capitali di assumere tacitamente partecipazioni in società di persone, dal momento che vi è un limite legale al potere degli amministratori.
Un’ulteriore linea argomentativa (in realtà a mio parere più convincente), invece, fa leva su una interpretazione di carattere sistematico. Si è detto che la previsione di una responsabilità risarcitoria da direzione e coordinamento (pur pensata per ovviare a eventuali abusi tra società in bonis) e la specificazione che la curatela può esercitare detta azione costituisce la prova che il legislatore ha inteso regolare l’abuso mettendo a disposizione della curatela tale strumento e non l’estensione del fallimento ex art. 147 L.F.. Pertanto, il curatore potrà tutelare i creditori della società eterodiretta facendo valere la responsabilità della capogruppo, quand’anche occulta.
I fautori dell’estendbilità alle società di capitali della disciplina di cui all’art. 147 L.F. fanno un ragionamento che si fonda su ragioni di equità sostanziale, ritenendo irragionevole un trattamento così differenziato tra socio occulto persona fisica e socio occulto persona giuridica.
Nel 2016, sono intervenute alcune decisioni particolarmente importanti perchè, se non sgombrano il campo dai dubbi teorici, costituiscono un passo deciso verso l’affermazione della estendibilità del fallimento alla super società di fatto. Con Cass. Civ. 21 gennaio 2016 n.1095, infatti, il giudice di legittimità ha specificato che la delibera assembleare non costituisce un limite ai poteri degli amministratori che, nell’ambito del loro potere gestorio, possono assumere la qualifica di socio sepppure in via di mero fatto. Pertanto, vincendo l’argomentazione formale della carenza di potere formale, la Cassazione ha affermato l’estendibilità del fallimento ai sensi dell’art. 147 L.F.
Tale orientamento si è ulteriormente consolidato con Cass. Civ. 13 giugno 2016, n.12120, la quale ha ribadito la possibilità per la società di capitali di assumere, in via di fatto, la qualifica di socito di società, sottolineando che quand’anche ricorresse un vizio genetico nell’atto costitutivo della società tra una società a responsabilità limitata ed una persona fisica, ne discenderebbe la conversione in una causa di scioglimento per il principio della conservazione degli atti posti in essere da una società nulla.
Successivamente, sono intervenute due ulteriori pronunce che, nel giungere alla estensione del fallimento, hanno provato ad operare una fusione tra le ragioni di chi ritiene che l’art. 147 L.F. sia lo strumento normativo principe per giungere alla dichiarazione del socio occulto e chi, viceversa, preferisce fare leva sulla responsabilità da direzione e coordinamento.
Infatti, nella sentenza Cass. Civ.. 25 luglio 2016, n. 15346 e nella recentissima Cass. Civ. 22 dicembre 2016, n. 26765, i giudici di Piazza Cavour hanno affermato sia l’estendibilità del fallimento alla holding di fatto, sia la sindacabilità in via incidentale in sede prefallimentare della responsabilità da direzione e coordinamento che può essere elemento di valutazione dell’insolvenza della holding di fatto.
Insomma, affermato con chiarezza il principio (il socio di fatto può fallire anche se ente avente autonomia patrionale perfetta) sembra che la giurisprudenza stia cercando la sistemazione teorica migliore per riportare ad unità due norme, l’art. 147 L.F. e l’art. 2497 cod.civ. che hanno presupposti e meccanismi di funzionamento profondamente diversi, ma obiettivi in parte equiparabili.
Non c’è che da attendere gli sviluppi futuri.
(1) come noto, Walter Bigiavi sviluppò la teoria dell’imprenditore occulto negli anni cinquanta del secolo scorso, cfr. W. BIGIAVI, Responsabilità del socio tiranno, in Foro it., 1969, I, 1180, preceduta da i suoi lavori ID., “L’imprenditore occulto”, Padova, 1954, ID “Ancora sulla giurisprudenza della Cassazione in tema di società occulta”, Giurisprudenza italiana, 1957, I, ID, “La giurisprudenza della Cassazione sull’ammissibilità della società occulta”, Giurisprudenza italiana, 1957, IV.
(2) La sentenza è molto nota ed ha ricevuto molteplici commenti. Vedi, tra gli altri, Weigmann R, in GIur.it, 1990, I, 713, Libonati B, in Giur.comm, 1991, II, 366.
(3) In modo analogo, si è pronunciata la giurisprudenza di merito. Vedi, tra le altre, Trib. Genova, 26 settembre 2005, in Società, 2006, 330, Trib. Napoli 8 gennaio 2007, Trib. Vicenza 23 novembre 2006, in Fallimento, 2007, 407, nt. F.Fimmanò; Trib. Roma, 19 dicembre 2012, in Dir.fall., 2014, II 515, nt. F.Murino;
(4) Tribunale di Forlì, Sez. Fall., 9 febbraio 2008, n. 6; Tribunale di Prato, 15 ottobre 2010; Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, 8 luglio 2008; Tribunale di Firenze, 12 agosto 2009, e Tribunale Vibo Valentia, Sez. Fall., 10 giugno 2011
(5) v. Trib. Bergamo 15 giugno 2015; Trib. Bergamo 11 giugno 2015; Trib. Foggia, 3 marzo 2015, in ilfallimentarista.it, Trib. Santa Maria Capua Vetere, 15.1.2015, in ilcaso.it; Trib. Mantova 30.4.2013, in ilcaso.it; App. venezia, 10.12.2011, in ilcaso.it; App. Torino 30.7.2007, in Nuovo dir. soc. 07, 2219; App. Bologna, 11.6.2008, in Fall. 08, 1293; App. Napoli 5,6,2009, in Nuovo dir. soc., 09, n. 16, 42,
Fallimento e nota di variazione IVA
Much ado about nothing. La nota di variazione deve attendere il riparto.
Come noto, l’articolo 1, commi 126 e 127 della Legge 28 dicembre 2015, n. 208 (cd. ‘Legge di Stabilità 2016’) era intervenuto a modificare l’articolo 26 del D.P.R. n. 633/1972, che regola le variazioni in aumento o in diminuzione dell’imponibile e dell’IVA, nei casi di mancato pagamento dei corrispettivi.
La novità principale era rappresentata dalla possibilità di recuperare l’IVA impagata mediante l’emissione di una nota in variazione all’apertura della procedura, senza dovere attendere il piano di riparto del fallimento. La misura era molto attesa ma, per ragioni di equilibrio finanziario, ne era stata limitata l’applicabilità alle procedure aperte dopo il 31 dicembre 2016.
Le esigenze di cassa sono tuttavia state fatali all’entrata a regime della innovazione normativa. La legge di bilancio 2017 (L.232/2016 co.567), infatti, ha abrogato la norma prima ancora che la stessa fosse applicabile. Le imprese dovranno pertanto continuare ad attendere il mancato riparto prima di potere emettere una nota di variazione IVA.
Vedi i testi a confronto dell’Art. 26 D.P.R. 633/72
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Atti in frode e revoca del concordato
Una tardiva disclosure non salva il concordato e non è necessario il voto dei creditori.
Cass. Civ. 5 maggio 2016, n. 9027
La Corte di Cassazione torna sull’annoso tema della rilevanza della disclosure in un procedimento per concordato preventivo per ribadire che l’esistenza di atti di frode rende necessario il subprocedimento di revoca della procedura di concordato ai sensi dell’art. 173 L.F.
I Giudici di piazza Cavour richiamano un principio già affermato precedentemente per cui, nonostante la riforma dell’istituto concordatario abbia voluto introdurre una maggiore flessibilità negoziale, la sussistenza di ragioni di carattere pubblicistico rendono inevitabile la revoca del concordato in caso di condotte fraudolente anche senza che sia necessario che i creditori, informati a seguito dei rilievi del commissario, esprimano il loro voto.
La Corte ne approfitta per ribadire le caratteristiche che l’atto in frode deve avere: esso può essere costituito da un atto che abbia anche solo una mera potenzialità decettiva ma deve essere posto in essere dolosamente, cioè nella consapevolezza di rendere un quadro inveritiero ai creditori chiamati al voto. Tuttavia, la Corte, pur rigettando nel caso di specie il ricorso, non sembra chiudere alla possibilità per il debitore, che voglia accedere al concordato e che abbia presentato una proposta difettosa, di modificare la proposta concordataria in corso di procedura in modo da ovviare ai difetti informativi della originaria proposta.
Se tale orientamento effettivamente si consolidasse, potrebbe forse trovare un equilibrio anche il difficile rapporto tra procedimento di revoca per atti in frode e concordato in bianco. Durante la fase del concordato in bianco, infatti, rimane inevitabilmente dubbio se possa revocarsi un concordato per quegli atti in frode che, se fatti conoscere ai creditori con la proposta completa, potrebbero essere superati dal voto favorevole dei creditori.
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D.L. 59/16 e procedure
Focus novità per fallimento e concordato
Il Decreto legge 3 maggio 2016, n. 59 ha apportato alcune modifiche che interessano sia la procedura fallimentare che quella concordataria.
ART. 40 L.F. (Nomina del comitato)
Viene inserito in questo articolo un quinto comma che stabilisce che la costituzione del comitato dei creditori è da considerare simultanea all’accettazione, che può avvenire anche per via telematica, della nomina da parte dei suoi componenti. Non sarà pertanto necessaria alcuna convocazione dinanzi al curatore, né attendere che venga eletto il presidente del comitato stesso.
ART. 95 L.F. (Progetto di stato passivo e udienza di discussione)
L’inserimento della possibilità di svolgere l’udienza di verifica dei crediti concorsuali e della formazione dello stato passivo anche per via telematica permetterà, con la postilla che venga garantito il contraddittorio e rispettata la partecipazione dei creditori, di ridurre l’attesa per il riparto ai creditori. Nel precisare che sarà possibile utilizzare le strutture informatiche messe a disposizione della procedura da soggetti terzi, il legislatore sembra aver inteso che, al fine di evitare un aggravio dei costi conseguenti, possano essere autorizzati direttamente gli ordini professionali ovvero fondazioni terze alla fornitura dei programmi per il supporto informatico.
ART. 104 ter L.F. (Programma di liquidazione)
All’articolo 104 ter L.F. viene inserita quale ulteriore giusta causa di revoca del curatore il mancato rispetto, in presenza di somme disponibili per la ripartizione, della presentazione del prospetto delle somme disponibili e un prospetto di ripartizioni delle medesime ogni quattro mesi dalla data del decreto previsto dall’art. 97 o nel diverso termine stabilito dal giudice delegato. L’obiettivo del legislatore, coerente con le recenti modifiche apportate dal D.L. 83/2015 che stabiliscono un limite ai creditori di 180 giorni dalla redazione dell’inventario per la presentazione del programma di liquidazione, sembra essere proprio quello di sanzionare pesantemente quei curatori che non procedano tempestivamente alla distribuzione delle somme ai creditori concorsuali.
ART. 163 L.F. (Ammissione alla procedura e proposte concorrenti)
Anche in questo caso, il tribunale potrà stabilire che “l’adunanza sia svolta in via telematica con modalità idonee a salvaguardare il contraddittorio e l’effettiva partecipazione dei creditori, anche utilizzando le strutture informatiche messe a disposizione della procedura da soggetti terzi”.
ART. 175 L.F. (Discussione della proposta di concordato)
In tema di concordato preventivo il legislatore ha espressamente previsto la possibilità di svolgere in via telematica l’adunanza dei creditori, in cui i membri sono chiamati ad esprimere il proprio voto sulla proposta concordataria. Anche se in concreto non è frequente che l’adunanza dei creditori si protragga per più udienze, l’intento che pare aver mosso il legislatore sembrerebbe essere sempre il medesimo, e cioè un notevole snellimento dei tempi della procedura a vantaggio degli interessi creditizi.
ART. 155-sexies – Disposizioni di attuazione del codice di procedura civile (Ulteriori casi di applicazione delle disposizioni per la ricerca con modalità telematiche dei beni da pignorare)
Al fine di dotare il curatore fallimentare, il commissario e il liquidatore giudiziale di poteri di indagine più ampi e di una maggiore autonomia il legislatore ha legittimato gli organi delle procedure concorsuali ad avvalersi direttamente e personalmente delle informazioni patrimoniali contenute nelle banche dati riguardanti i soggetti verso cui la procedura dimostri di vantare un credito, previa necessaria autorizzazione del giudice delegato, ma anche in assenza di un titolo esecutivo.
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Revocatoria
Cessione d’azienda e revocatoria fallimentare dei pagamenti ricevuti dall’imprenditore alienante prima della cessione.
Con l’ordinanza interlocutoria 8090/2016 la prima sezione civile della Corte di Cassazione ha richiesto alle Sezioni Unite di pronunciarsi sulla questione relativa alla responsabilità dei debiti derivanti dall’esercizio di un’azione revocatoria fallimentare avente ad oggetto pagamenti ricevuti da un imprenditore prima di cedere l’azienda.
Il Collegio, nell’esaminare il ricorso presentato avverso una pronuncia della Corte d’appello di Bologna, ha rilevato che è controverso se l’atto di conferimento di un’azienda in un’altra società determina il trasferimento alla società conferitaria anche dei debiti futuri nascenti dall’accoglimento dell’azione revocatoria, i cui presupposti tuttavia sussistano antecedentemente all’operazione di cessione.
Nel merito, la società ricorrente lamentava che la Corte territoriale avesse erroneamente riconosciuto l’inefficacia, ai sensi dell’art 67 comma 2 L.F., dei pagamenti effettuati da un’impresa poi sottoposta alla procedura di amministrazione straordinaria, in favore di una società in seguito incorporata per fusione nella società ricorrente.
Secondo una tesi, la società cessionaria non risponde dei debiti derivanti dall’accoglimento della revocatoria fallimentare, in quanto, avendo tale azione natura costitutiva, i debiti dalla stessa derivanti sono sopravvenuti alla cessione dell’azienda e, come tali, non rientrano tra i debiti di cui è chiamato a rispondere il cessionario, ai sensi dell’art 2560 comma 1 c.c.
La Suprema Corte, nella motivazione della pronuncia in esame, ha rilevato che è controverso se l’art 2560 c.c. comprenda anche il trasferimento delle passività aziendali sopravvenute in capo all’acquirente dell’azienda o se delle stesse debba rispondere il cedente quale obbligato principale.
In merito, parte della dottrina e della giurisprudenza ritiene che le passività aziendali si trasferiscano con l’azienda in capo all’acquirente, in quanto l’azienda è considerata universitas iuris, inclusiva dei rapporti passivi e attivi ad essa pertinenti (Cass. 1758/2012; Cass. 4482/2010). Di diverso avviso è un contrapposto e minoritario orientamento giurisprudenziale, secondo cui la previsione dell’art 2560 c.c. non determina un trasferimento della posizione debitoria sostanziale, in quanto il debitore effettivo rimane colui al quale è imputabile il fatto costitutivo del debito (Cass. 20153/2011).
Soltanto in ambito bancario, la giurisprudenza di legittimità è giunta a ritenere ammissibile il fenomeno traslativo delle passività aziendali sopravvenute, in applicazione di quanto previsto dall’art 58 D.Lgs. n. 385/1993 (Testo unico bancario) (Cass.n. 22199/2010).
Alla luce di quanto sopra, la Suprema Corte ha rimesso alle sezioni unite la risposta circa la possibilità di riconoscere un effetto traslativo, analogo a quello previsto ex lege per la cessione in ambito bancario, anche alle altre ipotesi di cessione di aziende commerciali, nelle quali l’atto di cessione non disciplini espressamente tale profilo, ma preveda, come nel caso esaminato dalla Corte, che la società conferitaria subentri in tutte le posizioni attive e passive risultanti dalle scritture contabili regolarmente tenute, in virtù dell’accollo cumulativo previsto dall’art 2560 c.c.
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