Trasferimento della sede all’estero e fallimento
Solo l’effettiva ricollocazione della società all’estero salva dal fallimento
L’articolo 9 L.F., al primo comma, detta, in materia di competenza, il seguente principio: “il fallimento è dichiarato dal tribunale del luogo dove l’imprenditore ha la sede principale dell’impresa. Il trasferimento della sede intervenuto nell’anno antecedente all’esercizio dell’iniziativa per la dichiarazione di fallimento non rileva ai fini della competenza”.
Il nostro legislatore ha previsto espressamente tale meccanismo per dissuadere operazioni non genuine che utilizzino il trasferimento della sede legale all’estero come escamotage per evitare il fallimento della propria impresa. Se la circolazione delle imprese, specialmente in ambito comunitario, é pacificamente consentito, il criterio di valutazione sviluppato dalla giurisprudenza per distinguere manovre elusive da rilocazioni fondate su un effettivo progetto si fonda sull’analisi dell’effettività del trasferimento dell’impresa.
Con sentenza del 17 febbraio 2016 n. 3059, la Corte di Cassazione a Sezioni Unite ha confermato la revoca, sulla quale si era espressa la Corte d’Appello competente, del fallimento di una srl dichiarata fallita dal giudice di prime cure pur avendo la stessa trasferito ante dichiarazione di fallimento la propria sede legale all’estero.
La strategia difensiva utilizzata dalla Srl ha voluto sottolineare come il tribunale italiano abbia dichiarato il fallimento omettendo tuttavia una preliminare verifica riguardo l’effettivo trasferimento dell’attività nel paese scelto per il trasferimento della sede legale. Detta verifica é essenziale.
Questa sentenza è particolarmente importante perché da un lato attribuisce la giurisdizione al giudice italiano in merito all’istanza di fallimento presentata nei confronti di una società che, sopraffatta dalla crisi, abbia trasferito all’estero la propria sede legale. Tuttavia, tale competenza é affermata solo a condizione che non si sia in presenza di un effettivo trasferimento dell’attività e , in particolare, della direzione e amministrazione degli affari dell’impresa originaria.
In linea con tale principio, la Suprema Corte con la sentenza oggetto di commento, ha affermato anche, come logico corollario, di non essere competente a dichiarare il fallimento di una quando il trasferimento dell’attività d’impresa sia stato effettivo e tale effettività si evinca dall’oggettività dei fatti.
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Procedimento prefallimentare e onere della prova
L’assenza delle condizioni di fallibilità va provata dal debitore.
La Corte di Cassazione ha riaffermato che il debitore che in un procedimento voglia fare valere l’insussistenza dei requisiti dimensionali di fallibilità deve darne prova senza potere contare sull’iniziativa officiosa del Tribunale. Pertanto, il debitore che non depositi i bilanci nel giudizio prefallimentare non può lamentarsi della mancata verifica, da parte del Tribunale, dell’insussistenza del requisito dimensionale di fallibilità. Il principio è ormai ampiamente consolidato ed era stato riaffermato anche recentemente da Cass. civ. Sez. I, 15/01/2016, n. 625 (e, precedentemente, da Cass. civ., 04/06/2012, n. 8930). La Cassazione consolida pertanto l’orientamento più rigoroso in tema di ripartizione dell’onere della prova non sviluppando le aperture verso un’iniziativa officiosa più vasta che erano state adombrate in alcune precedenti pronunce (Cass. civ. Sez. I, 04/12/2015, n. 24721 (rv. 638149) che comunque avevano concluso che l’iniziativa officiosa dovesse svilupparsi nell’ambito del thema decidendum definito dalle allegazioni delle parti.
Va ricordato che la giurisprudenza ha, in modo uniforme, adottato un approccio rigoroso anche per quanto riguarda la valutazione dei dati contabili ed ha ritenuto che il deposito degli ultimi tre bilanci costituisce la base informativa necessaria per valutare i requisiti dimensionali, ma che il Tribunale ha facoltà di discostrarsi dalle risultanze degli stessi ogniqulvolta abbia ragione di ritenere che essi siano inattendibili e non ritraggano correttamente la realtà sociale (Cass. civ. Sez. VI – 1 Ordinanza, 28/06/2012, n. 11007 – App. L’Aquila, 09/05/2013).
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Reiterabilità della domanda e preconcordato
Preconcordato e reiterazione della domanda
Con la sentenza n. 6277, depositata il 31 marzo 2016, la Corte di Cassazione ha chiarito la natura perentoria del termine di cui all’art. 161 co. 6 L.F. e ha dunque affermato che, in caso di inosservanza di detto termine, la domanda di concordato preventivo “con riserva” deve essere dichiarata inammissibile, salva la facoltà per il debitore di presentare una nuova domanda ex art. 161 co. 1 L.F., da cui si desuma la rinuncia a quella con riserva e che non si traduca in un abuso del diritto.
Il caso
Nel marzo 2013, il Tribunale di Napoli dichiarava il fallimento di A. spa in liquidazione e, al contempo, l’inammissibilità della domanda di concordato preventivo “con riserva”, presentata dalla società a settembre 2012 in seguito alla mancata approvazione, da parte dei creditori, di una prima domanda depositata nel gennaio 2011.
Successivamente, attesa l’intervenuta dichiarazione di fallimento, il Tribunale dichiarava improcedibile una terza domanda di concordato, depositata da A. nel febbraio 2013.
Il reclamo proposto dalla società avverso i tre provvedimenti del Tribunale di Napoli veniva respinto dalla Corte d’Appello, che, nel confermare la dichiarazione di inammissibilità della domanda di concordato preventivo “con riserva”, rilevava che A. non aveva presentato la proposta, il piano e la documentazione entro il termine assegnatole, che andava condiviso il giudizio del Tribunale in merito all’insussistenza di giustificati motivi per la proroga del termine, e, ancora, che era da escludere che il fallimento non potesse essere dichiarato in virtù dell’avvenuto deposito, prima della dichiarazione di fallimento, di un’ulteriore domanda di concordato preventivo, considerato che detta domanda era evidentemente preordinata ad evitare l’esame del ricorso per l’accertamento dello stato di insolvenza presentato da un creditore.
Avverso tale pronuncia A. proponeva ricorso per cassazione, lamentando, in particolare, che il rifiuto dei giudici di merito non poteva fondarsi su un preteso abuso del diritto, non invocabile in materia e non rilevabile d’ufficio, e che il Tribunale, nonostante la contemporanea pendenza dei procedimenti di istruttoria prefallimentare e di concordato preventivo, aveva omesso di verificare, prima di decidere sull’istanza di fallimento, l’attitudine della proposta e del piano al superamento della crisi.
La decisione della Corte di Cassazione
Respingendo i motivi di ricorso, la Suprema Corte ha innanzitutto affermato la natura perentoria e decadenziale del termine di cui all’art. 161 co. 6 L.F., precisando che tale termine, soggetto alla disciplina di cui all’art. 153 c.p.c., è prorogabile solo in presenza di giustificati motivi, che devono essere allegati dal richiedente e verificati dal giudice, che, sul punto, esprime un apprezzamento in fatto non sindacabile in sede di legittimità.
In presenza di una domanda di concordato preventivo con riserva, il provvedimento di rigetto dell’istanza di proroga del termine per il deposito della proposta, del piano e della documentazione è pertanto insindacabile in sede di legittimità (se adeguatamente motivato).
Ribadito che, rispetto al medesimo imprenditore e alla medesima insolvenza, il concordato non può che essere unico, la Corte ha poi affermato che, respinta l’istanza di proroga e scaduto il termine concesso ex art. 161, co. 6 L.F., la domanda di concordato deve essere dichiarata inammissibile, fatta salva la facoltà per il proponente, in pendenza dell’udienza fissata per la dichiarazione di inammissibilità o per l’esame di eventuali istanze di fallimento, di depositare una nuova domanda di concordato ai sensi dell’art. 161 co. 1 L.F., da cui si desuma la rinuncia alla domanda di concordato con riserva, sempre che la nuova domanda non si traduca in un abuso dello strumento concordatario.
A questo proposito, la Corte ha infine richiamato il principio già enunciato nelle Pronunce nn. 9935 e 9936/15 delle Sezioni Unite, secondo cui integra gli estremi dell’abuso del processo la domanda di concordato preventivo presentata dal debitore non per regolare la crisi dell’impresa ma al fine di procrastinare la dichiarazione di fallimento.
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Inps ed esdebitazione
Crediti contributivi ed esdebitazione
Cass. Civ., Sez. I, 11 Marzo 2016 n. 4844
Con una recente pronuncia (Cass. n. 4844/2016), la Corte di Cassazione ha precisato che la procedura di esdebitazione, disciplinata dall’art 142 L.F., trova applicazione anche con riferimento ai crediti contributivi non soddisfatti dalla procedura concorsuale, in quanto collegati all’esercizio dell’attività d’impresa.
L’istituto nazionale di previdenza (INPS) censurava la pronuncia della Corte d’appello di Firenze, in quanto la stessa aveva riconosciuto l’applicazione della procedura di esdebitazione per i crediti contributivi non soddisfatti nell’ambito del fallimento di una società in nome collettivo.
A dire della ricorrente, i debiti concorsuali non integralmente soddisfatti nell’ambito del fallimento sono esigibili nei confronti del socio fallito illimitatamente responsabile, secondo quanto previsto dall’art 120 comma 3 L.F., in quanto il rapporto previdenziale è estraneo all’esercizio dell’attività d’impresa.
Si difendeva con controricorso l’imprenditore fallito, il quale eccepiva l’inammissibilità del ricorso, poiché presentato tardivamente.
La Suprema Corte, rigettata l’eccezione d’inammissibilità formulata dal controricorrente, ha precisato che l’interpretazione fornita dall’INPS è del tutto priva di fondamento, poiché l’art 120 comma 3 L.F, nel stabilire che con la chiusura del fallimento i creditori acquistano nuovamente il diritto ad esercitare azioni nei confronti del debitore per la parte dei crediti non soddisfatta dalla ripartizione dell’attivo fallimentare, fa salvi espressamente gli artt. 142 e ss. L.F.
Come noto, il penultimo comma di detta disposizione nel prevedere l’esclusione dell’esdebitazione per alcune tipologie di debiti, non contempla tra queste ipotesi i debiti previdenziali. Il Collegio, richiamando il dato letterale della norma in esame, ha quindi affermato che anche i debiti contributivi sono soggetti alla procedura di esdebitazione.
Per i Giudici di Piazza Cavour è, altresì, sbagliato sostenere che il debito verso gli enti previdenziali sia estraneo all’esercizio dell’attività d’impresa, in quanto discende dalla legge. La Corte, infatti, afferma che l’art 142, comma 3, lettera a) L.F., così come modificato dal D.L.vo 169/2007, circoscrive l’area di non applicabilità dell’esdebitazione ai soli debiti personali del fallito.
Ciò premesso, la Corte ha concluso che i debiti previdenziali non possono rientrare nel novero di obbligazioni “estranee” all’esercizio dell’attività d’impresa, poichè tali debiti sorgono in occasione del rapporto di lavoro. In virtù di tali argomentazioni, la Corte ha rigettato il ricorso, condannando l’INPS al pagamento delle spese processuali.
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Falcidia dell’IVA e concordato
La Corte di Giustizia dice sì alla falcidia dell’IVA nel concordato preventivo
La Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha affermato che nell’ambito di un concordato liquidatorio che preveda la falcidia dei creditori privilegiati, non contrasta con la direttiva IVA e con il diritto comunitario una proposta che contempli uno stalcio anche dell’imposta sul valore aggiunto.
La Corte, dopo un breve excursus sulla ratio della direttiva IVA, ha affermato che la previsione di un pagamento solo parziale dell’IVA a debito non deve considerarsi violazione della disciplina comunitaria, poichè essa avviene in una procedura rigorosa come quella di concordato preventivo che, come noto, si fonda sull’attestazione di un esperto indipendente che accerta l’impossibilità di una maggiore soddisfazione del credito IVA in caso di fallimento.
I Giudici di Strasburgo notano che “nell’ambito del sistema comune dell’IVA, gli Stati membri sono tenuti a garantire il rispetto degli obblighi a carico dei soggetti passivi” ma che “beneficiano, al riguardo, di una certa libertà in relazione al modo di utilizzare i mezzi a loro disposizione”. La Corte, inoltre, sottolinea che nell’ambito della procedura concordataria l’Erario ha ampi poteri di intervento e di opposizione che garantiscono la serietà dello sforzo di riscossione ed evitano che il concordato sia utilizzato come uno strumento che menomi il principio di neutralità fiscale che presiede al sistema comunicario dell’IVA.
Alla luce di tali presupposti, pertanto, la Corte conclude, conformemente alle conclusioni dell’avvocato generale, che “l’ammissione di un pagamento parziale di un credito IVA, da parte di un imprenditore in stato di insolvenza, nell’ambito di una procedura di concordato preventivo che, a differenza delle misure di cui trattasi nelle cause che hanno dato origine alle sentenze Commissione/Italia (C-132/06, EU:C:2008:412) e Commissione/Italia (C-174/07, EU:C:2008:704) cui fa riferimento il giudice del rinvio, non costituisce una rinuncia generale e indiscriminata alla riscossione dell’IVA, non è contraria all’obbligo degli Stati membri digarantire il prelievo integrale dell’IVA nel loro territorio nonché la riscossione effettiva delle risorse proprie dell’Unione”
Fallimento e accertamento tributario
La notifica dell’avviso di accertamento al socio fallito di una snc.
L’ufficio delle imposte di Rovigo notificava distinti avvisi di accertamento indirizzati ai due soci di una snc fallita (R.U. E Z.R.) al curatore fallimentare, e il curatore impugnava i due atti impositivi davanti alla commissione tributaria competente.
All’udienza fissata per la discussione, compariva uno dei due soci (Z.R.), il quale chiedeva che venisse dichiarata la nullità dell’atto, in quanto non notificato a lui personalmente ma soltanto al curatore.
La Commissione accoglieva il ricorso di entrambi i soci e la Commissione tributaria di secondo grado, adita dall’ufficio, confermava la decisione in relazione alla posizione del socio non comparso (R.U.), respingendo invece il ricorso per l’altro socio (Z.R.) che, comparendo all’udienza, avrebbe sanato il vizio di notifica.
Il socio comparso (Z.R.) impugnava quindi la decisione davanti alla CTC, che accoglieva il gravame, ritenendo che l’omessa notifica avesse in effetti determinato l’inesistenza (insanabile) dell’atto impositivo, in quanto tale da precludere un’adeguata difesa al fallito che, con la dichiarazione di fallimento, non perde in senso assoluto la propria capacità processuale.
Avverso tale decisione, proponeva ricorso per cassazione l’Agenzia, lamentando che il vizio di notifica non potesse dar luogo ad un’ipotesi di inesistenza, essendo la stessa “destinata esclusivamente a riverberarsi sulla possibilità di impugnare l’atto da parte del fallito anche fuori termine” nel solo caso di inerzia degli organi fallimentari.
Con la sentenza n. 5384/2016, la Corte di Cassazione ha accolto il ricorso.
Con detta Pronuncia, che si inserisce in un consolidato orientamento giurisprudenziale (v., ad es., Cass. civ. nn. 9434/14 e 5671/06), la Suprema Corte ha avuto modo di ribadire che in caso di fallimento di una società di persone e di estensione del fallimento ai soci illimitatamente responsabili ex art. 147 L.F., l’avviso di accertamento inerente a crediti i cui presupposti si siano determinati prima della dichiarazione di fallimento del contribuente o nel periodo d’imposta in cui la dichiarazione è intervenuta, deve essere notificato sia al curatore che al contribuente. Restando esposto alle conseguenze (anche di carattere sanzionatorio) del provvedimento definitivo, il fallito è infatti eccezionalmente abilitato ad impugnare l’atto impositivo, non potendo attribuirsi carattere assoluto alla perdita processuale conseguente alla dichiarazione di fallimento, che può essere eccepita soltanto dal curatore.
Tuttavia, l’obbligo di notificazione al fallito è strumentale a consentire allo stesso l’esercizio in via condizionata del diritto di difesa, azionabile solo in caso di inerzia degli organi della procedura, e la sua violazione, restando la posizione del fallito comunque assorbita nel concorso concernente la società, non può determinarne la nullità né, tantomeno, l’inesistenza.
Ne deriva che in caso di impugnazione da parte del curatore della società anche in veste di curatore fallimentare del socio, il diritto sostanziale del fallito ad esercitare il proprio diritto di difesa è soddisfatto e l’atto impositivo, pur non notificato al socio personalmente, non può pertanto che ritenersi legittimo.
Bancarotta e piano di risanamento
Il reato di bancarotta fraudolenta è configurabile anche se viene presentato un piano di risanamento.
Due società proponevano ricorso per Cassazione avverso l’ordinanza del Tribunale del riesame che aveva confermato il decreto del G.i.p. del Tribunale di Chieti, con il quale era stato disposto il sequestro preventivo di un complesso aziendale di una società dichiarata fallita, nell’ambito di un’indagine nei confronti del debitore fallito per l’ipotesi di reato di bancarotta fraudolenta.
Le ricorrenti avevano acquistato dalla fallita tutti i beni aziendali, in pendenza di una domanda di concordato preventivo, alla quale il debitore fallito aveva poi rinunciato (rinuncia avvenuta a gennaio 2014) e alla quale era poi seguita la presentazione di un piano di risanamento aziendale, ai sensi dell’art 67, comma 3, lettera d) L.F. (marzo 2014), in concomitanza dell’avvio di una procedura di fallimento.
La dismissione degli assets aziendali era avvenuta in seguito all’avvio della procedura prefallimentare (il debitore era già comparso dinanzi al Tribunale per la delibera sull’istanza di fallimento avanzata dal Pubblico Ministero), iniziata in seguito alla chiusura della procedura di concordato, ma antecedentemente alla pronuncia della sentenza dichiarativa di fallimento.
Le ricorrenti lamentavano che il Tribunale, nel confermare il decreto del G.i.p. di Chieti, avesse omesso di considerare l’insussistenza del fumus commissi delicti del reato ipotizzato, con riferimento all’elemento soggettivo; evidenziando che il trasferimento dei beni era avvenuta prima della pubblicazione della sentenza di fallimento e che, inoltre, i creditori insinuati non avevano subito alcun pregiudizio, poiché era stati soddisfatti e il fallimento era stato poi chiuso.
La Corte di Cassazione, chiamata a decidere la controversia in esame, ha statuito che l’alienazione dei cespiti aziendali in esecuzione di un piano di risanamento presentato nella fase prefallimentare, costituisce una condotta distrattiva, laddove l’alienazione sia diretta a pregiudicare le garanzie per il ceto creditorio (Cass. pen. Sez.V, 03.03.2016, n. 8926).
I Giudici di Piazza Cavour, nel rigettare il ricorso proposto, hanno evidenziato che il provvedimento impugnato ha dato contezza del fumus del delitto contestato, relativamente all’elemento soggettivo. Per la Cassazione, infatti, gli atti dispositivi posti in essere dal debitore, in pendenza di una procedura prefallimentare, quando la società non è in grado di far fronte alle sue obbligazioni, sono diretti esclusivamente a privare la società del suo patrimonio,senza nessuna garanzia di soddisfacimento dei creditori sociali. A nulla rileva la circostanza che i creditori avessero rinunciato ai loro crediti insinuati tempestivamente al passivo del fallimento, poiché il pericolo per la soddisfazione dei creditori era sorto al momento dell’alienazione dei beni e il provvedimento impugnato dava comunque atto della presenza di creditori insoddisfatti.
La Corte ha poi fatto chiarezza sulle conseguenze derivanti dalla presentazione di un piano di risanamento, sottolineando che l’attività di alienazione svolta da un imprenditore in stato di decozione non è resa lecita dalla presentazione di un piano, ai sensi dell’art 67, comma 3, lettera d) L.F. La fattibilità e la serietà del piano devono essere valutate dal giudice penale, in quanto piano strumentale a salvaguardare le attività negoziali realizzate in momenti di crisi dell’impresa e, come tali, idonee a distogliere il patrimonio sociale.
Il piano di risanamento, infatti, consente all’imprenditore in stato di crisi di esercitare l’attività d’impresa, solo se detto rimedio è idoneo a risanare l’esposizione debitoria e a riequilibrare la situazione finanziaria dell’impresa, in una prospettiva di continuazione dell’attività.
Nel caso in esame, l’attività di disposizione del patrimonio sociale non poteva essere considerata lecita per il solo fatto che la stessa fosse stata realizzata in attuazione di un piano, ai sensi dell’art 67, comma 3, lettera d) L.F.; poiché il piano era stato richiesto per scopi dilatori, in seguito all’avvio della fase prefallimentare, quando ormai era evidente che non sussistevano possibilità di risanare la società.
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Procedura e IVA
Omesso versamento IVA e concordato.
Nel momento in cui il debitore accede alla procedura di concordato preventivo, la gestione dei debiti dello stesso, fino ad allora autonoma e privata, assume una rilevanza pubblicistica. Pur dando spazio ad interessi privati, il concordato permette infatti al debitore di consegnare la gestione della sua crisi ad uno strumento qualificabile come pubblico. A questo proposito, basti pensare, ad esempio, che dal momento del deposito della domanda di concordato, i creditori non possono iniziare o proseguire azioni esecutive e cautelari sul patrimonio del debitore, la gestione dei beni e dell’impresa è sottoposta al controllo del commissario giudiziale e del giudice delegato, e che dal diniego dell’omologazione si può passare direttamente alla sentenza di fallimento, emessa contestualmente al decreto che respinge il concordato, il quale rappresenta pur sempre una particolare domanda giurisdizionale, alternativa a quella di dichiarazione di fallimento e a tutela della collettività. Pertanto, se la dilazione del pagamento IVA (secondo la giurisprudenza di legittimità, ammissibile in ogni tipologia di concordato) rientra nell’ambito del piano concordatario, ciò non può certo essere irrilevante ai fini penali. Del resto, consentire al giudice fallimentare di ammettere l’imprenditore al concordato che prevede il pagamento dell’IVA oltre il termine previsto e a quello penale di condannare per il reato di omesso versamento IVA lo stesso imprenditore che ha eseguito l’accordo omologato (la cui domanda era stata peraltro ab origine comunicata anche al pubblico ministero) costituisce infatti una “evidente e insostenibile frattura ordinamentale”.
Sulla base di questa motivazione, con la sentenza n. 15853/2015, la Suprema Corte di Cassazione ha escluso che possa sussistere il fumus commissi delicti del reato di cui all’art. 10 ter d.lvo 74/2000 quando un debitore è ammesso al concordato preventivo prima della scadenza del termine per il versamento di un debito IVA e il suo debito viene incluso nel piano concordatario. Con questa Pronuncia che ha sottolineato come la legge penale non possa essere intesa in modo avulso dagli altri settori pubblicistici dell’ordinamento giuridico, sembra quindi superato quell’orientamento giurisprudenziale più restrittivo (v., ad es., Cass. pen. nn. 44283 e 39101/13) che, in virtù del principio di indisponibilità del debito IVA, riteneva che, in assenza di un accordo di transazione fiscale, il reato di cui all’art. 10 ter d.lvo 74/2000 reato omissivo istantaneo venisse comunque integrato alla scadenza del termine previsto per il versamento dell’IVA, indipendentemente dall’antecedente ammissione del debitore al concordato.
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Fallimento, transazione e bancarotta
La transazione con la curatela costituisce una attenuante di cui il giudice penale deve tenere conto.
La Suprema Corte, con la sentenza n. 8644/2016, sembra aver premiato la tenacia dell’amministratore di una srl, poi dichiarata fallita, sul quale pendeva un procedimento con l’accusa di bancarotta fraudolenta patrimoniale.
L’amministratore aveva visto disattese le proprie aspettative sia nel primo che nel secondo grado di giudizio, ma la Cassazione ha ribaltato il verdetto finale.
La motivazione? L’imputato aveva raggiunto un accordo transattivo con la Curatela con cui si accollava parte del danno arrecato alla fallita.
Tale ammissione di responsabilità ha consentito all’uomo di poter chiedere al giudice penale la riduzione della pena.
Il giudice di prime cure ha respinto la richiesta dell’uomo che, avanti alla corte d’appello, ha impugnato la sentenza, rilevando, altresì, l’eccessività della pena irrogatagli.
La Corte d’appello, ribadisce l’orientamento manifestato dal Tribunale, stavolta perché la riduzione della pena sarebbe stata richiesta in virtù di un generico riferimento, peraltro non documentato, ad una transazione raggiunta dall’uomo con il Fallimento.
La Suprema Corte ha annullato la sentenza e ha disposto la trasmissione degli atti alla Corte d’appello intimandola ad uniformarsi all’indirizzo per cui non è da ritenere motivato il rigetto per inammissibilità della richiesta di riduzione della pena perché rappresentata in modo generico, qualora l’accordo transattivo risulti dagli atti di causa.
Concordato, IVA e ordine dei privilegi
Il pagamento integrale di IVA e ritenute non versate non rende inammissibile il concordato anche se lo stesso prevede lo stralcio di creditori con un grado di privilegio maggiore.
Con sentenza depositata il 9 febbraio, la terza sezione della Corte di Cassazione si è espressa a favore della società che, con ricorso strordinario ex art. 111 Cost., ha impugnato il decreto con il quale il giudice di prime cure ha dichiarato inammissibile la sua domanda di concordato preventivo.
Il piano concordatario era edificato sul pagamento integrale dei crediti privilegiati relativi a IVA e ritenute non versate, a scapito, tuttavia, di quelli di pertinenza dei dipendenti e dei professionisti, che sarebbero stati soddisfatti soltanto parzialmente. Parte attrice veniva interdetta alla possibilità di entrare in concordato preventivo perché il tribunale competente a ricevere la domanda eccepiva che, così come presentata, la stessa si sarebbe tradotta in una indebita alterazione della cause legittime di prelazione e, di conseguenza, in una violazione dell’art. 160 legge fallimentare. Ricorreva in Cassazione la società ravvisando nel decreto del giudice di merito la violazione degli articoli 160 e 182 ter della legge fallimentare. La domanda di concordato, infatti, prevedeva la suddivisione in classi dei creditori privilegiati, la prima delle quali comprendeva gli unici crediti (per IVA e ritenute non versate) che, per le loro caratteristiche, sarebbero stati pagati per intero.
Quanto previsto era perfettamente coerente al dettato normativo che, proprio all’art. 160 comma II legge fallimentare, conferma la facoltà per l’imprenditore di non soddisfare integralmente quei creditori muniti di privilegio, pegno o ipoteca, purché il piano presentato ne preveda una soddisfazione non inferiore a quella realizzabile sul ricavato in caso di liquidazione.
Nelle motivazioni della propria decisione, la Suprema Corte ha ribadito l’orientamento dalla stessa in precedenza già adottato (si veda Cass. 22932/2011) per cui, in presenza di crediti relativi ad IVA e a ritenute non versate, la proposta di concordato preventivo, per essere approvata, deve necessariamente prevedere il soddisfacimento completo dei crediti medesimi. Tale esigenza non è estesa a quei crediti che, seppur anteriori e anch’essi privilegiati, non presentino le stesse peculiarità, per i quali è ammesso anche un soddisfacimento parziale.
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