Contratti di investimento
Violazione degli obblighi informativi e nullità del contratto di investimento
La Corte di Cassazione, con sentenza del 9 febbraio 2016 n. 2535, ha affrontato il tema degli obblighi informativi posti in capo ad un intermediario finanziario nell’ambito dei contratti di investimento conclusi con i clienti. Il Collegio, nel richiamare alcuni principi da tempo affermati in giurisprudenza, ha avuto modo di precisare la portata e l’ampiezza degli obblighi di diligenza e trasparenza che incombono sull’intermediario, al fine di tutelare ed agevolare la clientela nel compimento di consapevoli scelte di investimento; statuendo che il mancato rispetto di detti obblighi informativi determina la nullità dei contratti di investimento.
La vicenda posta al vaglio del Corte trae origine dal caso di due investitori che, nell’anno 2000, stipulavano un contratto di acquisto di titoli della società “Cirio” con il Banco Ambrosiano Veneto (oggi Intesa San Paolo s.p.a.) per l’importo di € 320.000,00 e l’anno successivo effettuavano una nuova operazione di investimento per € 60.000,00. Detti investitori, nell’anno 2004, a poco più di un anno dal fallimento di alcune società del Gruppo Cirio, convenivano in giudizio l’istituto di credito, al fine di sentire dichiarare la nullità dei contratti di investimento, in quanto conclusi dalla banca in violazione degli obblighi di informazione imposti, secondo quanto previsto dalla normativa di riferimento (art. 21 del D.lgs n. 58 del 1998 – Testo Unico in materia di intermediazione finanziaria – e artt. 28 e 29 del Reg. CONSOB n. 11522 del 1998).
Il Giudice di prime cure rigettava la domanda avanzata dagli attori. In riforma dell’impugnata sentenza, la Corte D’appello, ravvisata la violazione degli obblighi di informazione che incombono sull’intermediario finanziario, condannava la banca Intesa San Paolo s.p.a al pagamento agli investitori di un importo di € 260.000,00, oltre agli interessi legali e alle spese. Avverso tale pronuncia ha proposto ricorso Intesa San Paolo s.p.a.
Il Collegio nella motivazione della sentenza in esame ha richiamato un principio già da tempo espresso in giurisprudenza, secondo il quale la banca intermediaria, prima di compiere operazioni di investimento, è tenuta a fornire all’investitore “un’informazione adeguata in concreto”, articolata in base alle esigenze del singolo rapporto e alla situazione finanziaria del cliente.
I soggetti abilitati a compiere operazioni finanziarie sono tenuti a fornire ai clienti informazioni adeguate circa la natura e le caratteristiche degli strumenti finanziari, il rating del prodotto, l’emittente e il rendimento degli strumenti ovvero sull’eventuale imminente default economico dell’emittente (art. 21 T.U. In materia di intermediazione finanziaria e art. 28 Reg. Consob, abrogato nel 2007, ma applicabile alla fattispecie in esame). Gli intermediari, al fine di effettuare operazioni di investimento, tengono conto delle informazioni relative ai servizi di investimento prestati, astenendosi dal compiere, per conto dei clienti investitori, operazioni non adeguate e non consapevoli (art .29 Reg. CONSOB 11522/1998).
La Corte ha precisato che l’operatività dell’obbligo informativo della banca non trova alcuna limitazione nell’ipotesi in cui i clienti siano investitori abituali, che in precedenza abbiano già acquistato altri titoli ad rischio, perchè detta circostanza non è sufficiente ad attribuire loro la qualità di “operatori qualificati”, così come delineata dall’art. 31 comma 2 del Reg. CONSOB n. 11522/1998. La qualità di operatori qualificati, infatti, presuppone la sussistenza in capo a detti soggetti, sia persone fisiche che persone giuridiche, di specifiche competenze ed esperienze in materia di operazioni in strumenti finanziari.
La professionalità e la diligenza richiesta all’intermediario finanziario non trovano limitazioni nemmeno con riferimento al caso di ordini vincolanti impartiti dal cliente e relativi al compimento di operazioni di investimento rischiose. In dette circostanze, la banca, consapevole del rischio sotteso all’investimento, ha la facoltà di recedere dall’incarico, ai sensi dell’art 24, comma 1, lettera d) D.lgs. n. 58/1998 ( T.U. Delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria), in quanto ordini di investimento integrano una giusta causa di recesso dal mandato, secondo quanto previsto dall’art 1727 comma 1 c.c.
L’intermediario finanziario deve quindi adottare una condotta altamente professionale e prudente, finalizzata a tutelare il cliente e a segnalare a quest’ultimo l’eventuale inadeguatezza delle operazioni di investimento che intende compiere.
Detti profili di professionalità e diligenza non sono stati ravvisati nella condotta della banca Intesa San Paolo, che si era limitata a fornire una generica dichiarazione rivolta agli investitori (“non esiste alcuna garanzia di mantenere invariato il valore dell’investimento”), senza indicare agli stessi le caratteristiche del titolo, la natura dell’emittente e, in modo particolare, senza segnalare ai clienti che il crollo delle obbligazioni della Cirio era imminente, al momento della sottoscrizione del contratto di investimento.
Il collegio, alla luce dei principi di diligenza richiamati, ha rigettato tutti i motivi di ricorso, affermando che gli investitori, in conformità alla più recente giurisprudenza sul punto (Cass. 18039/2012), avevano ritualmente allegato l’inadempimento informativo della Banca e il nesso causale tra detto inadempimento e il pregiudizio lamentato. Al contrario, la Banca non aveva assolto l’onere della prova su di essa incombente e relativo alla dimostrazione dell’assolvimento degli obblighi informativi posti a suo carico.
Fallimento e processo
La regolarità del contraddittorio nel procedimento per la dichiarazione di fallimento
IL CASO – Il socio di una s.n.c. proponeva reclamo avverso la sentenza che lo aveva dichiarato fallito, lamentando che non tutti i ricorsi per la dichiarazione di fallimento presentati dai creditori e confluiti nel procedimento gli fossero stati regolarmente notificati e, dunque, la violazione del contraddittorio.
Tuttavia, la sentenza dichiarativa di fallimento veniva confermata sia dalla Corte d’Appello che dalla Corte di Cassazione, che, con l’ordinanza n. 445 del 14 gennaio scorso, ha ribadito che per la corretta instaurazione del contraddittorio è sufficiente la notifica al debitore di un’istanza di fallimento ai sensi dell’art. 15 L.F., a nulla rilevando eventuali irregolarità di notifica dei successivi ricorsi che si inseriscono nel medesimo procedimento.
Alla base di tale principio, più volte enunciato dalla Cassazione (v., ad es., ord. n. 22060/13, sent. nn. 6191/08, 19141/06 e 19072/04), vi è l’onere del debitore che sia stato già regolarmente convocato in camera di consiglio e dunque posto nelle condizioni di svolgere le proprie difese, di seguire l’ulteriore sviluppo della procedura e di assumere ogni opportuna iniziativa in ordine ad essa, a tutela dei propri diritti.
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L’estensione del fallimento ad altra società di capitali
La Cassazione afferma l’estendibilità del fallimento ad una S.r.l. socia di fatto.
Cass. Civ. 21 gennai0 2016, n. 1095
IL CASO – Il Tribunale di Foggia afferma l’estensione del fallimento ad alcune società a responsabilità limitata che, per le modalità di gestione, si possono ritenere in fatto una sola società. La Corte di appello di Bari conferma la decisione sottolineando che, sebbene l’art. 2361 cod.civ. previsto per le società per azioni disponga la necessità di una delibera assembleare al fine di potere acquisire una partecipazione in una società di persone, tale requisito costituisce unicamente la rimozione di un limite al potere gestorio degli amministratori rilevante ai fini della loro responsabilità ma che non incide sull’efficacia dell’atto. La decisione della Corte d’appello viene impugnata con un ricorso in cassazione fondato su un’unica censura: la società di capitali non potrebbe partecipare ad una società irregolare di fatto in virtù della necessità di una regolare delibera assembleare ai sensi dell’art. 2361 c.c..
La decisione della Corte di legittimità affronta un tema che è stato oggetto di approcci altalenanti da parte della giurisprudenza di merito e che pare, con la sentenza in oggetto, consolidarsi nel senso della applicabilità della teoria della società di fatto anche alle società di capitali che in concreto vengono gestite come un unico ente.
Come noto, la legge fallimentare prevede, all’art. 147 co. 5, che ove emerga, successivamente al fallimento, l’esistenza di altri soci illimitatamente responsabili, su istanza del curatore, di un creditore o di un socio fallito può essere chiesto il fallimento in estensione del socio occulto. In modo analogo si procede nel caso in cui, dopo il fallimento di un imprenditore apparentemente individuale, risulti l’esistenza di una società di fatto.
Una giurisprudenza restrittiva ha inteso valorizzare la tutela dell’autonomia patrimoniale della società di capitali ritenendo che alla stessa non sia applicabile la disciplina di cui all’art. 147 l.f.. (v. tra le altre, Trib. Bergamo 15 giugno 2015, Trib. Bergamo 11 giugno 2015 su www.ilcaso.it, Trib. Foggia 3 marzo 2015 in Ilfallimentarista.it). Tale opzione ermeneutica vuole valorizzare la funzione di tutela dei soci e dei creditori dell’art. 2361 c.c. che prevede la necessità di una delibera assembleare per l’assunzione di una partecipazione in una società di persone. D’altra parte essa costituisce un approccio risalente, dal momento che argomentazioni di natura simile avevano fondato la motivazione di Cass. 5636/88 che aveva definitivamente escluso, nel sistema previgente alla riforma societaria, la possibilità per una società di capitali di assumere una partecipazione in società di persone.
La sentenza di legittimità che qui si commenta e un corpus significativo di decisioni di merito si collocano in netto contrasto con tale orientamento (Tribunale di Forlì, Sez. Fall., 9 febbraio 2008, n. 6, Tribunale di Prato, 15 ottobre 2010, Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, 8 luglio 2008, Tribunale di Firenze, 12 agosto 2009, Cass. n. 23344/2010 e Tribunale Vibo Valentia, Sez. Fall., 10 giugno 2011). Nella sentenza in commento, la Cassazione, dopo un attento excursus sulle conseguenze giuridiche che discendono dalle norme che, in modo analogo all’art. 2361 cod.civ., prevedono la necessità di una previa delibera assembleare, ha ritenuto prevalente la tutela della stabilità dell’agire societario e del mercato. Sottolinea, infatti, la corte che l’assenza di delibera assembleare non pone nel nulla il comportamento gestorio degli amministratori, ma rileva piuttosto sul piano delle responsabilità di questi ultimi. Infatti, la necessità di autorizzazione non determina uno spostamento del potere gestorio in capo all’assemblea, poichè “il sistema ordinamentale della società azionaria esclude, in via di principio, la nullità o l’inefficacia dell’atto negoziale compiuto dagli amministratori in violazione delle disposizioni sull’autorizzazione assembleare”.
Pertanto, la Corte conclude che, nel bilanciamento fra gli interessi dei creditori e dei soci partecipanti alla società azionaria e quelli esistenti in capo ai creditori della società di fatto, devono prevalere questi ultimi. D’altra parte, sottolinea la corte, il soggetto che entra in contatto con la società personale non ha modo di verificare da pubblici registri la previa deliberazione assembleare, posto che di essa non è prevista l’iscrizione ex art. 2193 e 2436 c.c.
Tali principi vanno applicati anche alla società irregolare, salva la necessità di indagare con rigore la sussistenza degli elementi che danno vita ad una società di fatto che, come noto, si caratterizza per un patrimonio ed un’attività comune, una effettiva partecipazione ai profitti ed alle perdite, la sussistenza di un vincolo di collaborazione tra i soci.
La Corte inoltre afferma che l’interpretazione letterale dell’art. 111-duodecies cod. civ. non porta a ritenere che, anche con riferimento alle società a responsabilità limitata, sussista un obbligo di previa deliberazione assembleare al fine di assumere partecipazioni in società personali. I giudici di piazza Cavour affermano che l’art. 111-duodecies sia rilevante ai fini della disciplina di bilancio applicabile per cui la società personale interamente partecipata da società di capitali sarà soggetta alle medesime prescrizioni di bilancio previste per queste ultime, mentre le partecipanti avranno l’obbligo del consolidamento.
Pure avendo emesso un articolato arresto, la Cassazione non risolve la questione relativa a quale sia il termine entro il quale fare valere la fallibilità in estensione della società di fatto. Alcuni precedenti di merito, hanno ritenuto che, ai sensi dell’art. 10 l.f., soglia invalicabile per la dichiarazione di fallimento in estensione fosse comunque l’anno dalla sentenza che ha dichiarato il fallimento del socio di fatto, sul presupposto che, con il fallimento di uno dei soci di fatto, venga meno il vincolo sociale (Tribunale Modena 10 giugno 2011 – Pres. Eleonora De Marco – Rel. Adriana Gherardi). Altre pronunce di legittimità hanno ritenuto privo di pregio tale orientamento dal momento che esso dà rilievo ad una circostanza non conoscibile nè conosciuta al momento della dichiarazione del fallimento, lo scioglimento del vincolo sociale (Cassazione civile, sez. VI 25 novembre 2015, n. 24112 – Pres. Dogliotti – Est. Ragonesi – Cassazione civile, sez. I 12 dicembre 2014, n. 26209 – Pres. Rordorf – Est. Di Amato).
(Per ulteriori informazioni o per un gradito feedback restiamo a Vostra disposizione)
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Revocatoria e credito professionale
La revocatoria ai sensi dell’art. 67 co. 2 L.F. può essere accordata sulla base della sola fattura del professionista
La Cassazione si è espressa in proposito della revocabilità dei pagamenti effettuati in favore di un professionista in un caso in cui la conoscenza dello stato di insolvenza poteva evincersi dalla natura delle prestazioni svolte (Cass. Civ. Sez. I, 2 ottobre 2015, n. 19728).
Un commercialista aveva svolto per la fallita una serie di attività di consulenza, relative alla ristrutturazione di una società, al suo rilancio ed al suo sviluppo. Inoltre, lo stesso professionista aveva curato la redazione di un rapporto relativo alla situazione economica della società ed alle strategie economico–finanziarie di risanamento. Dette prestazioni sono state descritte in fattura.
La Suprema Corte ha ribadito che “in tema di revocatoria fallimentare, la conoscenza dello stato di insolvenza da parte del terzo deve essere effettiva, ma può essere provata anche per presunzioni gravi, precise e concordanti”. Pertanto, in funzione del ruolo svolto in stretto contatto con la fallita e del tipo particolare di prestazioni svolte in suo favore così come documentate in fattura, difficilmente si sarebbe potuta affermare l’ignoranza da parte del professionista dello stato di insolvenza.
La Cassazione ha quindi confermato la revocabilità ai sensi dell’art. 67 comma 2 L.F. del pagamento effettuato dalla fallita in favore del professionista, anche solo sulla base della fattura emessa nei confronti della stessa durante il c.d. periodo sospetto nel caso in cui da tale documento emerga la conoscenza dello stato di dissesto societario.
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Valutazione di impresa
I principi italiani di valutazione e la redazione dei bilanci
Il 1 gennaio 2016 sono entrati in vigore in Italia i principi italiani di valutazione (Piv), emanati dall’OIV (Organismo italiano di valutazione). Tali principi costituiscono delle vere e proprie linee guida per i professionisti che operano nel campo delle valutazioni economiche e trovano applicazione volontaria e, unitamente ai principi contabili e di revisione, mirano a migliorare la qualità dei bilanci.
Tuttavia, i Piv hanno un ambito di applicazione più ampio, in quanto delineano una serie di protocolli differenziati che i professionisti possono osservare quando effettuano una stima economica, indipendentemente dalla finalità della stima stessa. Detti principi, infatti, individuano una serie di linee guida differenziate in funzione dell’oggetto della stima (azienda, macchinari, strumenti finanziari, partecipazioni) e della finalità della stima stessa (cessione di ramo d’azienda, fusione, recesso ecc).
I Piv, inspirati agli International valuation standards emanati dall’IVSC (International valuation standard council), sono modulati al contesto economico del Nostro Paese e puntano a ridurre i margini di discrezionalità dei professionisti nell’effettuare valutazioni economiche innalzando così lo standard qualitativo dei valutatori e la fiducia negli stessi da parte degli operatori economici e degli utilizzatori. La valutazione economica, infatti, deve condurre ad un giudizio di valore chiaro e motivato e suscettibile di essere replicato.
Pertanto i Piv puntano a chiarire il processo che deve essere seguito dall’esperto e definiscono cosa il professionista non può trascurare nel corso della stima al fine di uniformare il processo di valutazione e identificano cinque opzioni comuni a tutte le attività (valore di mercato, valore di investimento, valore negoziale equitativo, valore convenzionale), che il valutatore potrà scegliere di utilizzare a seconda della finalità della stima da effettuare.
Concordato e gruppo di imprese
Il concordato di gruppo é inammissibile in assenza di una legislazione ad hoc
Cass. Civ. 13 ottoobre 2015 n. 20559
IL CASO – Quattro società di capitali appartenenti al medesimo gruppo, al fine di presentare un’unica proposta di concordato, costituiscono una società di persone in cui conferiscono il proprio patrimonio aziendale. La proposta che segue mantiene la distinzione tra le masse delle società di ciascuna delle società di capitali socie e conferenti. Il concordato viene omologato e le censure formulate in appello da quattro creditori vengono respinte dalla Corte d’appello genovese. I creditori e l’agenzia delle entrate interpongono ricorso in cassazione.
La Cassazione, con una motivazione a dire il vero asciutta, aderisce alla prospettazione dei creditori.
I giudici di piazza Cavour sottolineano, infatti, che nella realtà economica odierna le imprese operanti sul mercato sono frequentemente organizzate in gruppi di società e che, tuttavia, l’attuale sistema del diritto fallimentare, “non conosce il fenomeno, non dettando alcuna disciplina al riguardo, che si collochi sulla falsariga di quella enunciata in tema di amministrazione straordinaria alla L. 8 luglio 1999, n. 270, art. 80 e ss., o dal D.L. 23 dicembre 2003, n. 347, art. 4 bis, sulla ristrutturazione industriale di grandi imprese in stato di insolvenza, convertito, con modificazioni, in L. 18 febbraio 2004, n. 39, o con riguardo ai gruppi bancari od assicurativi insolventi”.
Nondimeno, la Corte non si astiene dal formulare alcune osservazioni che possono costituire utili principi operativi che devono presiedere, nel silenzio del legislatore, alle domande concordatarie connesse per il fatto di essere relative a societá appartenenti al medesimo gruppo. In particolare:
- Il coordinamento tra procedure di concordato che hanno una diversa competenza territoriale può operare solo sul piano materiale non operando il meccanismo processuale della connessione e la conseguente attrazione di una procedura a foro diverso.
- In presenza di più imprese appartenenti allo stesso gruppo, in assenza di una disciplina che regoli la materia diversamente, sarà necessario presentare una domanda per ciascuna società del gruppo.
- Occorre tenere distinte le masse attive e passive, che conservano la loro autonomia giuridica, dovendo restare separate le posizioni debitorie e creditorie delle singole società, onde evitare che i creditori delle società meno capienti concorrano inammissibilmente con quelli delle società più capienti e che vengano alterati i meccanismi di voto e di formazione del consenso sulle proposte concordatarie.
La Cassazione, pertanto, non coglie gli stimoli espansivi offertigli dalla giurisprudenza di merito (si erano espressi favorevolmente, tra gli altri, Trib. Terni 30 dicembre 2010, Trib. Roma 7 marzo 2011, Trib. La Spezia 2 maggio 2011, App. Genova 23 dicembre 2011, Trib.Benevento 18 gennaio 2012; Trib. Roma 25 luglio 2012; App. Roma 5 marzo 2013; Trib. Rovigo 5 novembre 2013 e, più recentemente, Trib. Ferrara 8 aprile 2014 e Trib. Palermo 9 giugno 2014) ribadendo una netta chiusura ad una valorizzazione della nozione di gruppo di imprese. Non rimane che attendere una disciplina esplicita dell’insolvenza di gruppo che dovrebbe essere oggetto dei lavori della commissione Rordorf il cui progetto di riforma organica dovrebbe essere in dirittura di arrivo.
Fallimento e diritto penale
Le dichiarazioni rilasciate al curatore senza assistenza del difensore sono utilizzabili nel processo penale
Cass. 22 settembre 2015, n. 38453
IL CASO – Un imputato è chiamato a rispondere, quale amministratore di fatto di una società fallita, per bancarotta fraudolenta documentale. L’ex amministratore ombra è accusato di avere sottratto, con dolo specifico, i libri e le scritture contabili della società. L’accusa di essere l’amministratore di fatto della società si fonda principalmente sulle dichiarazioni rese al Curatore dall’amministratrice di diritto che, per il resto, fonda la sua difesa su una poco credibile (quanto comune in casi di questa specie) narrazione circa il furto della documentazione sociale mentre la stessa veniva trasportata a bordo di un auto.
L’amministratore di fatto, condannato sia in primo grado che in appello, si lamenta davanti ai giudici di Piazza Cavour che, in violazione della giurisprudenza CEDU, l’affermazione del suo ruolo di reale gestore della società si fosse fondato in modo preponderante sulla testimonianza indiretta resa dal Curatore, il quale aveva riferito delle dichiarazioni a lui rese dall’amminitratrice di diritto che, nel processo penale, non era comparsa nè era stata interrogata dalla difesa.
LA SENTENZA – I giudici di legittimità si limitano a ribadire l’orientamento, ormai consolidato, secondo cui la testimonianza indiretta del curatore fallimentare sulle dichiarazioni a lui rese da un coimputato non comparso al dibattimento e trasfuse dal curatore nella propria relazione 33 L.F. è utilizzabile nel processo penale (V. in tal senso Cass. 4164/14 e Cass. 13285/13).
L’art. 63 c.p.p. prevede che se davanti all’autorità giudiziaria o alla polizia giudiziaria una persona non imputata rende dichiarazioni dalle quali emergono indizi di reità a suo carico, l’autorità procedente ne interrompe immediatamente l’esame e le dichiarazioni rese sono inutilizzabili. L’art. 64 u.c. prevede, inoltre, che se in sede di interrogatorio la persona sottoposta alle indagini non viene avvertito che le proprie dichiarazioni possono essere utilizzate nei confronti di altri, le dichiarazioni da costui rese non possono essere utilizzate nei confronti delle persone che quest’ultimo ha accusato. Le garanzie poste da queste norme sono estese, a norma dell’art. 220 c.p.p. disp. att., ai casi in cui l’attività ispettiva o di vigilanza sia resa anche da altri soggetti (“Quando nel corso di attività ispettive o di vigilanza previste da leggi o decreti emergano indizi di reato, gli atti necessari per assicurare le fonti di prova e raccogliere quant’altro possa servire per l’applicazione della legge penale sono compiuti con l’osservanza delle disposizioni del codice”)
I Giudici di Piazza Cavour, però, non ritengono applicabile alle dichiarazioni rese al curatore l’art. 63 c.p.p., poichè al Curatore non è applicabile il rinvio effettuato dall’art. 220 att. c.p.p. in quanto l’attività del Curatore non rientra nella nozione di attività ispettiva o di vigilanza.
La Cassazione, pertanto, preoccupata da ovvie esigenze punitive, non aderisce ad una applicazione espansiva del precetto posto dall’art. 111 Cost. (“La colpevolezza dell’imputata non può essere provata sulla base di dichiarazioni rese da chi, per libera scelta, si è sempre volontariamente sottratto all’interrogatorio da parte dell’imputato o dal suo difensore”) e conclude per la piena utilizzabilità della testimonianza indiretta resa dal Curatore.
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La cessione del ramo d’azienda e la circolazione dei debiti
Un equilibrio instabile: la Cassazione tra circolazione dell’azienda e protezione dei creditori
Cass. Civ. 30 giugno 2015, n.13319
IL CASO – Una macelleria fornisce un’ingente quantità di carne ad un piccolo supermercato maturando un credito significativo. Il supermercato viene ceduto ad una catena di grande distribuzione ma l’ex proprietario mantiene la sezione macelleria. La cessione pertanto viene configurata come cessione di un ramo d’azienda. La macelleria, rimasta insoddisfatta, cita in giudizio la catena di distribuzione sostenendo che, in quanto cessionaria dell’azienda, debba rispondere dei debiti dalla cedente. La Cassazione dà torto all’attore sottolineando che, in caso di cessione di un ramo di azienda, i debiti di cui risponde il cessionario sono solo quelli funzionalmente collegati al ramo ceduto a prescindere dal fatto che il ramo ceduto abbia tenuto o meno una sua contabilità distinta
LA QUESTIONE – La Cassazione torna ad occuparsi del regime di circolazione dei debiti in caso di cessione di azienda. Come noto, l’articolo 2560 cod.civ. regola la sorte dei debiti relativi ad un’attività ceduta nel senso di trasferire al cessionario solo quei debiti che trovino riscontro nella contabilità della azienda ceduta. Recentemente (Cass. Civ. 21 dicembre 2012, n. 23828), i giudici di Piazza Cavour hanno affermato che l’art. 2560 cod. civ. realizza un bilanciamento in cui, alla solidarietà passiva del cedente e del cessionario per i debiti iscritti nelle scritture contabili dell’azienda ceduta, si accompagna una tutela rafforzata del cessionario cui è garantita dall’ordinamento la possibilità di avere la certezza dell’entità della massa debitoria associata all’azienda acquisita. Corollario della natura eccezionale della norma é che la stessa va interpretata in modo restrittivo e che, pertanto, non é sufficiente una identificazione parziale o incompleta del debito nelle scritture contabili, né é sufficiente la conoscenza aliunde dello stesso per potere legalmente opporre il debito al cessionario.
La questione all’attenzione della Corte nel caso di specie é invece più articolata e di complessa soluzione. Infatti, la cessionaria ha acquisito unicamente un ramo d’azienda con riferimento al quale non esiste una contabilità autonoma. La cedente, pertanto, con la vendita ha incisivamente diminuito la propria capacità patrimoniale ed é per questo che l’attore fa valere le sue domande nei confronti del cessionario.
Tuttavia, la Cassazione ha ritenuto di ritrovare l’equilibrio tra necessità di assicurare la sicura circolazione dell’azienda e la tutela dei creditori del cedente affermando la prevalenza della prima sulla seconda. Secondo la Cassazione, il cessionario diviene solidalmente responsabile con il cedente solo per i debiti funzionalmente collegati al ramo ceduto e senza che l’assenza di una autonoma contabilità abbia alcuna rilevanza.
CONSIDERAZIONI – La decisione in commento rivela un netto favore verso soluzioni che garantiscono una parcellizzazione funzionale dell’impresa ma finisce per trascurare quei creditori che assumono la decisione di contrattare con una impresa contando su una nozione vasta di garanzia patrimoniale che tiene in considerazione e valorizza l’articolazione complessa dell’impresa con cui contrattano. Ove questo orientamento si consolidasse, la cessione di ramo d’azienda si candida a divenire un validissimo strumento per effettuare spinoffs che valorizzino le attività in utile di un’impresa separandole dalle attività in perdita. Infatti, a differenza di quanto disposto in tema di scissione, dove ai sensi dell’art. 2506 quater cod. civ. “ciascuna società è solidalmente responsabile, nei limiti del valore effettivo del patrimonio netto ad essa assegnato o rimasto, dei debiti della società scissa non soddisfatti dalla società cui fanno carico”, con la cessione del ramo di azienda il cessionario potrebbe limitare la proporia responsabilità alle obbligazioni funzionalmente collegate all’azienda.
Ciò tuttavia andrà a discapito della garanzia dei creditori della cedente e potrà comportare la necessità per quest’ultimi di introdurre, in sede di contrattazione, clausole che limitino ex ante il potere di trasferire le componenti attive dell’azienda. Se ciò succedesse, la lettura dell’art. 2560 cod. civ. adottata dai giudici di piazza Cavour, nata con l’obiettivo di favorire la circolazione dell’azienda e la sicurezza dei traffici, potrebbe sortire esattamente l’effetto opposto.
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Accordo di ristrutturazione e ceto bancario
Risanamento del debito bancario: l’art 182 septies e il superamento del diniego dell’istituto dissenziente
L’art. 182 septies L.F., come novellato dalla L. 132/2015, permette alle imprese che versino in uno stato di decozione di imporre, a certe condizioni, ad un numero di creditori rappresentativi di una quota inferiore al 25% del debito bancario il contenuto di accordi volti alla ristrutturazione aziendale.
Tale operazione è possibile nel solo caso in cui il debito verso banche o intermediari finanziari non sia inferiore al 50% dell’indebitamento complessivo dell’impresa.
Nel caso in cui le banche e gli intermediari finanziari aderenti all’accordo rappresentino almeno il 75% dei crediti complessivi, il debitore può richiedere, contemporaneamente all’istanza di omologazione, che l’accordo sia esteso anche ai creditori non aderenti allo stesso, con il limite che le banche e gli intermediari finanziari cui viene imposto l’accordo abbiano interessi economici e posizioni giuridiche omogenee agli aderenti.
Il Legislatore ha dimostrato un’attenzione particolare per la fase delle trattative che precedono l’accordo ex art. 182 septies L.F., tanto da subordinarlo al corretto svolgimento delle stesse.
È infatti espressamente stabilito espressamente che l’accordo può essere esteso anche ai creditori non aderenti nel caso in cui sia garantita la buona fede nelle trattative e che tutti i creditori appartenenti alle categorie siano stati messi in condizione di parteciparvi.
L’impegno nell’assicurare trasparenza e correttezza, si spinge fino alla necessaria assegnazione in capo al debitore del compito di provvedere agli adempimenti pubblicitari connessi, che deve notificare alle banche e agli intermediari finanziari, per i quali i 30 giorni per proporre opposizione decorrono dalla data di ricezione della notifica.
In ultima battuta, rimane ferma la supervisione del Tribunale, che può avvalersi di una CTU, ove ritenga il parere di un esperto necessario ad accertare che tutte le prescrizioni siano rispettate e che i creditori non aderenti cui l’accordo sia stato imposto siano soddisfatti in misura almeno equivalente alle alternative verosimilmente praticabili.
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Concordato e sopravvenienze attive
Risanamento o liquidazione: modificato il trattamento fiscale delle sopravvenienze legate ad una ristrutturazione procedimentalizzata
Il Decreto legislativo 147/15, recentemente varato dal governo, contiene importanti novità per quanto concerne la disciplina fiscale delle sopravvenienze attive generate da procedure di concordato o ristrutturazione. Come noto, la materia è stata oggetto di importanti rivisitazioni negli ultimi anni nel tentativo di conciliare le esigenze della ristrutturazione con il trattamento tributario delle perdite sui crediti.
Infatti, prima dell’entrata in vigore del D.L. 22 giugno 2012, n.83 nel TUIR vi era unicamente una previsione relativa alla non imponibilità delle sopravvenienze derivanti dal concordato preventivo o fallimentare, mentre non era prevista alcuna disposizione con riguardo alla riduzione dei debiti conseguenti all’omologazione dell’accordo di ristrutturazione dei debiti. A fronte di tale lacuna, vi era il tentativo della dottrina e degli operatori, prevedibilmente contrastato dall’Agenzia delle entrate (v. Nt. 6 marzo 2006 prot. 954/35315/2006 AE), di estendere in via interpretativa all’accordo di ristrutturazione la medesima disciplina prevista per il concordato.
Il vuoto normativo è stato colmato dall’art. 33 comma 4 D.L. 83/2012, il quale ha previsto che, anche per gli accordi di ristrutturazione dei debiti omologati o i piani attestati pubblicati sul registro delle imprese, la riduzione dei debiti dell’impresa non costituisse sopravvenienza attiva ma, a differenza di quanto previsto per il concordato, solo per la parte che eccedeva le perdite, pregresse e di periodo.
L’art. 13 D.Lgs. 147/15 ridefinisce i rapporti tra diverse modalità di ristrutturazione del debito di impresa. Esso estende gli effetti fiscali delle procedure concorsuali anche al caso in cui le sopravvenienze siano relative a procedure analoghe a quelle previste dal nostro ordinamento ma approvate in giurisdizioni diverse dall’Italia e con le quali esiste un adeguato scambio di informazioni. In modo significativo, inoltre, viene introdotto un trattamento fiscale differente delle sopravvenienze, non più correlato al distinguo accordo/concordato, bensì correlato al binomio liquidazione/risanamento.
Infatti, laddove il concordato sia lo strumento con il quale si intende preservare la continuità di impresa, analogamente all’accordo di ristrutturazione dei debiti omologato ai sensi dell’articolo 182-bis del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267, ovvero al piano attestato ai sensi dell’articolo 67, terzo comma, lettera d), del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267, pubblicato nel registro delle imprese, “la riduzione dei debiti dell’impresa non costituisce sopravvenienza attiva per la parte che eccede le perdite, pregresse e di periodo, di cui all’articolo 84, senza considerare il limite dell’ottanta per cento, e gli interessi passivi e gli oneri finanziari assimilati di cui al comma 4 dell’articolo 96”. Solo in caso di concordato liquidatorio o fallimentare le sopravvenienze saranno integralmente e senza limiti detassabili.
Il decreto inoltre interviene sulla tassabilità delle rinunce ai crediti effettuate dai soci, anch’esse spesso correlate ad una ristrutturazione societaria. Dette sopravvenienze infatti saranno detassabili solo nei limiti del valore fiscale del credito che dovrà essere autocertificato dal socio.