Bancarotta e piano di risanamento
Il reato di bancarotta fraudolenta è configurabile anche se viene presentato un piano di risanamento.
Due società proponevano ricorso per Cassazione avverso l’ordinanza del Tribunale del riesame che aveva confermato il decreto del G.i.p. del Tribunale di Chieti, con il quale era stato disposto il sequestro preventivo di un complesso aziendale di una società dichiarata fallita, nell’ambito di un’indagine nei confronti del debitore fallito per l’ipotesi di reato di bancarotta fraudolenta.
Le ricorrenti avevano acquistato dalla fallita tutti i beni aziendali, in pendenza di una domanda di concordato preventivo, alla quale il debitore fallito aveva poi rinunciato (rinuncia avvenuta a gennaio 2014) e alla quale era poi seguita la presentazione di un piano di risanamento aziendale, ai sensi dell’art 67, comma 3, lettera d) L.F. (marzo 2014), in concomitanza dell’avvio di una procedura di fallimento.
La dismissione degli assets aziendali era avvenuta in seguito all’avvio della procedura prefallimentare (il debitore era già comparso dinanzi al Tribunale per la delibera sull’istanza di fallimento avanzata dal Pubblico Ministero), iniziata in seguito alla chiusura della procedura di concordato, ma antecedentemente alla pronuncia della sentenza dichiarativa di fallimento.
Le ricorrenti lamentavano che il Tribunale, nel confermare il decreto del G.i.p. di Chieti, avesse omesso di considerare l’insussistenza del fumus commissi delicti del reato ipotizzato, con riferimento all’elemento soggettivo; evidenziando che il trasferimento dei beni era avvenuta prima della pubblicazione della sentenza di fallimento e che, inoltre, i creditori insinuati non avevano subito alcun pregiudizio, poiché era stati soddisfatti e il fallimento era stato poi chiuso.
La Corte di Cassazione, chiamata a decidere la controversia in esame, ha statuito che l’alienazione dei cespiti aziendali in esecuzione di un piano di risanamento presentato nella fase prefallimentare, costituisce una condotta distrattiva, laddove l’alienazione sia diretta a pregiudicare le garanzie per il ceto creditorio (Cass. pen. Sez.V, 03.03.2016, n. 8926).
I Giudici di Piazza Cavour, nel rigettare il ricorso proposto, hanno evidenziato che il provvedimento impugnato ha dato contezza del fumus del delitto contestato, relativamente all’elemento soggettivo. Per la Cassazione, infatti, gli atti dispositivi posti in essere dal debitore, in pendenza di una procedura prefallimentare, quando la società non è in grado di far fronte alle sue obbligazioni, sono diretti esclusivamente a privare la società del suo patrimonio,senza nessuna garanzia di soddisfacimento dei creditori sociali. A nulla rileva la circostanza che i creditori avessero rinunciato ai loro crediti insinuati tempestivamente al passivo del fallimento, poiché il pericolo per la soddisfazione dei creditori era sorto al momento dell’alienazione dei beni e il provvedimento impugnato dava comunque atto della presenza di creditori insoddisfatti.
La Corte ha poi fatto chiarezza sulle conseguenze derivanti dalla presentazione di un piano di risanamento, sottolineando che l’attività di alienazione svolta da un imprenditore in stato di decozione non è resa lecita dalla presentazione di un piano, ai sensi dell’art 67, comma 3, lettera d) L.F. La fattibilità e la serietà del piano devono essere valutate dal giudice penale, in quanto piano strumentale a salvaguardare le attività negoziali realizzate in momenti di crisi dell’impresa e, come tali, idonee a distogliere il patrimonio sociale.
Il piano di risanamento, infatti, consente all’imprenditore in stato di crisi di esercitare l’attività d’impresa, solo se detto rimedio è idoneo a risanare l’esposizione debitoria e a riequilibrare la situazione finanziaria dell’impresa, in una prospettiva di continuazione dell’attività.
Nel caso in esame, l’attività di disposizione del patrimonio sociale non poteva essere considerata lecita per il solo fatto che la stessa fosse stata realizzata in attuazione di un piano, ai sensi dell’art 67, comma 3, lettera d) L.F.; poiché il piano era stato richiesto per scopi dilatori, in seguito all’avvio della fase prefallimentare, quando ormai era evidente che non sussistevano possibilità di risanare la società.
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Fallimento, transazione e bancarotta
La transazione con la curatela costituisce una attenuante di cui il giudice penale deve tenere conto.
La Suprema Corte, con la sentenza n. 8644/2016, sembra aver premiato la tenacia dell’amministratore di una srl, poi dichiarata fallita, sul quale pendeva un procedimento con l’accusa di bancarotta fraudolenta patrimoniale.
L’amministratore aveva visto disattese le proprie aspettative sia nel primo che nel secondo grado di giudizio, ma la Cassazione ha ribaltato il verdetto finale.
La motivazione? L’imputato aveva raggiunto un accordo transattivo con la Curatela con cui si accollava parte del danno arrecato alla fallita.
Tale ammissione di responsabilità ha consentito all’uomo di poter chiedere al giudice penale la riduzione della pena.
Il giudice di prime cure ha respinto la richiesta dell’uomo che, avanti alla corte d’appello, ha impugnato la sentenza, rilevando, altresì, l’eccessività della pena irrogatagli.
La Corte d’appello, ribadisce l’orientamento manifestato dal Tribunale, stavolta perché la riduzione della pena sarebbe stata richiesta in virtù di un generico riferimento, peraltro non documentato, ad una transazione raggiunta dall’uomo con il Fallimento.
La Suprema Corte ha annullato la sentenza e ha disposto la trasmissione degli atti alla Corte d’appello intimandola ad uniformarsi all’indirizzo per cui non è da ritenere motivato il rigetto per inammissibilità della richiesta di riduzione della pena perché rappresentata in modo generico, qualora l’accordo transattivo risulti dagli atti di causa.
Fallimento e diritto penale
Le dichiarazioni rilasciate al curatore senza assistenza del difensore sono utilizzabili nel processo penale
Cass. 22 settembre 2015, n. 38453
IL CASO – Un imputato è chiamato a rispondere, quale amministratore di fatto di una società fallita, per bancarotta fraudolenta documentale. L’ex amministratore ombra è accusato di avere sottratto, con dolo specifico, i libri e le scritture contabili della società. L’accusa di essere l’amministratore di fatto della società si fonda principalmente sulle dichiarazioni rese al Curatore dall’amministratrice di diritto che, per il resto, fonda la sua difesa su una poco credibile (quanto comune in casi di questa specie) narrazione circa il furto della documentazione sociale mentre la stessa veniva trasportata a bordo di un auto.
L’amministratore di fatto, condannato sia in primo grado che in appello, si lamenta davanti ai giudici di Piazza Cavour che, in violazione della giurisprudenza CEDU, l’affermazione del suo ruolo di reale gestore della società si fosse fondato in modo preponderante sulla testimonianza indiretta resa dal Curatore, il quale aveva riferito delle dichiarazioni a lui rese dall’amminitratrice di diritto che, nel processo penale, non era comparsa nè era stata interrogata dalla difesa.
LA SENTENZA – I giudici di legittimità si limitano a ribadire l’orientamento, ormai consolidato, secondo cui la testimonianza indiretta del curatore fallimentare sulle dichiarazioni a lui rese da un coimputato non comparso al dibattimento e trasfuse dal curatore nella propria relazione 33 L.F. è utilizzabile nel processo penale (V. in tal senso Cass. 4164/14 e Cass. 13285/13).
L’art. 63 c.p.p. prevede che se davanti all’autorità giudiziaria o alla polizia giudiziaria una persona non imputata rende dichiarazioni dalle quali emergono indizi di reità a suo carico, l’autorità procedente ne interrompe immediatamente l’esame e le dichiarazioni rese sono inutilizzabili. L’art. 64 u.c. prevede, inoltre, che se in sede di interrogatorio la persona sottoposta alle indagini non viene avvertito che le proprie dichiarazioni possono essere utilizzate nei confronti di altri, le dichiarazioni da costui rese non possono essere utilizzate nei confronti delle persone che quest’ultimo ha accusato. Le garanzie poste da queste norme sono estese, a norma dell’art. 220 c.p.p. disp. att., ai casi in cui l’attività ispettiva o di vigilanza sia resa anche da altri soggetti (“Quando nel corso di attività ispettive o di vigilanza previste da leggi o decreti emergano indizi di reato, gli atti necessari per assicurare le fonti di prova e raccogliere quant’altro possa servire per l’applicazione della legge penale sono compiuti con l’osservanza delle disposizioni del codice”)
I Giudici di Piazza Cavour, però, non ritengono applicabile alle dichiarazioni rese al curatore l’art. 63 c.p.p., poichè al Curatore non è applicabile il rinvio effettuato dall’art. 220 att. c.p.p. in quanto l’attività del Curatore non rientra nella nozione di attività ispettiva o di vigilanza.
La Cassazione, pertanto, preoccupata da ovvie esigenze punitive, non aderisce ad una applicazione espansiva del precetto posto dall’art. 111 Cost. (“La colpevolezza dell’imputata non può essere provata sulla base di dichiarazioni rese da chi, per libera scelta, si è sempre volontariamente sottratto all’interrogatorio da parte dell’imputato o dal suo difensore”) e conclude per la piena utilizzabilità della testimonianza indiretta resa dal Curatore.
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