Trasferimento della sede e fallimento
Il trasferimento della sede all’estero non salva dal fallimento
Una strategia, che negli ultimi anni, è stata spesso usata per evitare il fallimento è quella di trasferire all’estero la sede sociale. Decorso l’anno dalla cancellazione, infatti, il giudice italiano non può più pronunciare il fallimento della società. Ciò è vero, tuttavia, solo ove la società abbia cessato effettivamente di operare.
La Cassazione, con una sentenza emessa ai primi di gennaio (Cass. Civ. 4 gennaio 2017, n. 43), ha ribadito un principio consolidato (v. anche Cass. S.U. 5945/13) per cui se il trasferimento è fittizio, il giudice italiano rimane competente a valutare l’insolvenza di una società che non è stata cancellata per liquidazione totale dell’attivo e che continui ad operare. In tali casi, infatti, il termine annuale non opera.
Azione di responsabilità e fallimento
Quantificazione del danno. Il criterio dello “stato passivo” è solo residuale.
La Corte di Cassazione, con una sentenza emessa ai primi di gennaio (Cass. Civ. 3 gennaio 2017, n. 38) ha ribadito il principio secondo cui nelle azioni di responsabilità promosse dal curatore fallimentare il ricorso al criterio di quantificazione che fa riferimento alla differenza tra l’attivo e lo stato passivo accertato è solo residuale.
La corte ha infatti ribadito che tale criterio è un riferimento cui il giudice può ricorrere solo nei casi in cui voglia quantificare equitativamente il danno. L’attore, tuttavia, anche quando non abbia rinvenuto la contabilità sociale, deve allegare elementi da cui desumere l’inadempimento colpevole dell’amministratore della società fallita e la plausibilità dell’attribuzione del danno, nella misura così equitativamente determinata.
Fallimento e accertamento tributario
La notifica dell’avviso di accertamento al socio fallito di una snc.
L’ufficio delle imposte di Rovigo notificava distinti avvisi di accertamento indirizzati ai due soci di una snc fallita (R.U. E Z.R.) al curatore fallimentare, e il curatore impugnava i due atti impositivi davanti alla commissione tributaria competente.
All’udienza fissata per la discussione, compariva uno dei due soci (Z.R.), il quale chiedeva che venisse dichiarata la nullità dell’atto, in quanto non notificato a lui personalmente ma soltanto al curatore.
La Commissione accoglieva il ricorso di entrambi i soci e la Commissione tributaria di secondo grado, adita dall’ufficio, confermava la decisione in relazione alla posizione del socio non comparso (R.U.), respingendo invece il ricorso per l’altro socio (Z.R.) che, comparendo all’udienza, avrebbe sanato il vizio di notifica.
Il socio comparso (Z.R.) impugnava quindi la decisione davanti alla CTC, che accoglieva il gravame, ritenendo che l’omessa notifica avesse in effetti determinato l’inesistenza (insanabile) dell’atto impositivo, in quanto tale da precludere un’adeguata difesa al fallito che, con la dichiarazione di fallimento, non perde in senso assoluto la propria capacità processuale.
Avverso tale decisione, proponeva ricorso per cassazione l’Agenzia, lamentando che il vizio di notifica non potesse dar luogo ad un’ipotesi di inesistenza, essendo la stessa “destinata esclusivamente a riverberarsi sulla possibilità di impugnare l’atto da parte del fallito anche fuori termine” nel solo caso di inerzia degli organi fallimentari.
Con la sentenza n. 5384/2016, la Corte di Cassazione ha accolto il ricorso.
Con detta Pronuncia, che si inserisce in un consolidato orientamento giurisprudenziale (v., ad es., Cass. civ. nn. 9434/14 e 5671/06), la Suprema Corte ha avuto modo di ribadire che in caso di fallimento di una società di persone e di estensione del fallimento ai soci illimitatamente responsabili ex art. 147 L.F., l’avviso di accertamento inerente a crediti i cui presupposti si siano determinati prima della dichiarazione di fallimento del contribuente o nel periodo d’imposta in cui la dichiarazione è intervenuta, deve essere notificato sia al curatore che al contribuente. Restando esposto alle conseguenze (anche di carattere sanzionatorio) del provvedimento definitivo, il fallito è infatti eccezionalmente abilitato ad impugnare l’atto impositivo, non potendo attribuirsi carattere assoluto alla perdita processuale conseguente alla dichiarazione di fallimento, che può essere eccepita soltanto dal curatore.
Tuttavia, l’obbligo di notificazione al fallito è strumentale a consentire allo stesso l’esercizio in via condizionata del diritto di difesa, azionabile solo in caso di inerzia degli organi della procedura, e la sua violazione, restando la posizione del fallito comunque assorbita nel concorso concernente la società, non può determinarne la nullità né, tantomeno, l’inesistenza.
Ne deriva che in caso di impugnazione da parte del curatore della società anche in veste di curatore fallimentare del socio, il diritto sostanziale del fallito ad esercitare il proprio diritto di difesa è soddisfatto e l’atto impositivo, pur non notificato al socio personalmente, non può pertanto che ritenersi legittimo.
Fallimento e diritto penale
Le dichiarazioni rilasciate al curatore senza assistenza del difensore sono utilizzabili nel processo penale
Cass. 22 settembre 2015, n. 38453
IL CASO – Un imputato è chiamato a rispondere, quale amministratore di fatto di una società fallita, per bancarotta fraudolenta documentale. L’ex amministratore ombra è accusato di avere sottratto, con dolo specifico, i libri e le scritture contabili della società. L’accusa di essere l’amministratore di fatto della società si fonda principalmente sulle dichiarazioni rese al Curatore dall’amministratrice di diritto che, per il resto, fonda la sua difesa su una poco credibile (quanto comune in casi di questa specie) narrazione circa il furto della documentazione sociale mentre la stessa veniva trasportata a bordo di un auto.
L’amministratore di fatto, condannato sia in primo grado che in appello, si lamenta davanti ai giudici di Piazza Cavour che, in violazione della giurisprudenza CEDU, l’affermazione del suo ruolo di reale gestore della società si fosse fondato in modo preponderante sulla testimonianza indiretta resa dal Curatore, il quale aveva riferito delle dichiarazioni a lui rese dall’amminitratrice di diritto che, nel processo penale, non era comparsa nè era stata interrogata dalla difesa.
LA SENTENZA – I giudici di legittimità si limitano a ribadire l’orientamento, ormai consolidato, secondo cui la testimonianza indiretta del curatore fallimentare sulle dichiarazioni a lui rese da un coimputato non comparso al dibattimento e trasfuse dal curatore nella propria relazione 33 L.F. è utilizzabile nel processo penale (V. in tal senso Cass. 4164/14 e Cass. 13285/13).
L’art. 63 c.p.p. prevede che se davanti all’autorità giudiziaria o alla polizia giudiziaria una persona non imputata rende dichiarazioni dalle quali emergono indizi di reità a suo carico, l’autorità procedente ne interrompe immediatamente l’esame e le dichiarazioni rese sono inutilizzabili. L’art. 64 u.c. prevede, inoltre, che se in sede di interrogatorio la persona sottoposta alle indagini non viene avvertito che le proprie dichiarazioni possono essere utilizzate nei confronti di altri, le dichiarazioni da costui rese non possono essere utilizzate nei confronti delle persone che quest’ultimo ha accusato. Le garanzie poste da queste norme sono estese, a norma dell’art. 220 c.p.p. disp. att., ai casi in cui l’attività ispettiva o di vigilanza sia resa anche da altri soggetti (“Quando nel corso di attività ispettive o di vigilanza previste da leggi o decreti emergano indizi di reato, gli atti necessari per assicurare le fonti di prova e raccogliere quant’altro possa servire per l’applicazione della legge penale sono compiuti con l’osservanza delle disposizioni del codice”)
I Giudici di Piazza Cavour, però, non ritengono applicabile alle dichiarazioni rese al curatore l’art. 63 c.p.p., poichè al Curatore non è applicabile il rinvio effettuato dall’art. 220 att. c.p.p. in quanto l’attività del Curatore non rientra nella nozione di attività ispettiva o di vigilanza.
La Cassazione, pertanto, preoccupata da ovvie esigenze punitive, non aderisce ad una applicazione espansiva del precetto posto dall’art. 111 Cost. (“La colpevolezza dell’imputata non può essere provata sulla base di dichiarazioni rese da chi, per libera scelta, si è sempre volontariamente sottratto all’interrogatorio da parte dell’imputato o dal suo difensore”) e conclude per la piena utilizzabilità della testimonianza indiretta resa dal Curatore.
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Inquinamento e fallimento
Rifiuti inquinanti e responsabilità della Curatela
Con una importante decisione del 30 giugno 2014, la quinta sezione del Consiglio di Stato ha ribadito che non rientra tra le responsabilità della Curatela l’adempimento delle prescrizioni ingiunte con ordinanza sindacale e relative alla bonifica di siti sui quali il fallito ha versato rifiuti inqunanti per i quali la legge prevede la responsabilità solidale del proprietario dell’area.
Il caso prende le mosse da un’ordinanza sindacale nel quale il Comune di Pavia di Udine aveva ordinato alla Curatela di provvedere all’adempimento di una precedente ordinanza emessa dal Sindaco ai sensi dell’art. 192 D.lgs. 152/06 ed affronta una fattispecie purtroppo piuttosto frequente. Infatti, dati gli elevati costi di bonifica dei siti inquinati con l’abbandono di rifiuti, non è poi così raro che la municipalità, anzichè bonificare l’area affrontando i relativi costi ed addebitando le somme ai corresponsabili, si limiti ad emettere una ordinanza con la quale invita (o meglio, tenta di imporre) la Curatela a farsi parte attiva. D’altra parte, non infrequentemente capita che la Curatela non possa nemmeno pensare di affrontare le spese di bonifica per carenza di fondi.
La pronuncia appare importante, dal momento che, come noto, la mancata ottemperanza all’ordinanza sindacale ha rilievo penale ai sensi dell’art.255 D.Lgs. 152/05 secondo cui “chiunque non ottempera all’ordinanza del Sindaco, di cui all’articolo 192, comma 3, o non adempie all’obbligo di cui all’articolo 187, comma 3, e’ punito con la pena dell’arresto fino ad un anno. Nella sentenza di condanna o nella sentenza emessa ai sensi dell’articolo 444 del codice di procedura penale, il beneficio della sospensione condizionale della pena può essere subordinato alla esecuzione di quanto disposto nella ordinanza di cui all’articolo 192, comma 3, ovvero all’adempimento dell’obbligo di cui all’articolo 187, comma 3.“. E’ capitato, purtroppo, che, in modo forse un po’ distratto, fossero avviati procedimenti penali anche nei confronti del Curatore che non avesse provveduto all’adempimento dell’ordinanza sindacale.
Il decisum del Consiglio di stato appare dipanare alcune incertezze che possono discendere dall’articolata disciplina ambientale e, sottolineando come il fallimento abbia il mero effetto di spossessare dei beni ma non di privare il fallito della titolarità degli stessi, conclude che la Curatela non possa essere gravata da una responsaiblità che è, viceversa, prevista per il caso di successione nelle posizioni giuridiche della società. Ovviamente, sarà facoltà del giudice penale disapplicare il provvedimento illegittimo anche in assenza di un provvedimento del Tribunale amministrativo che annulli l’ordinanza sindacale.
Più complessa appare la situazione nel caso in cui sia stato autorizzato il provvisorio esercizio dell’attività. Infatti, in detta ipotesi, il Consiglio di stato pare affermare, seppur con un obiter dictum, la responsabilità del fallimento. Ne consegue, evidentemente, che la necessità di sopportare i costi di bonifica dovrà rientrare nell’attenta valutazione del Tribunale che autorizzi l’esercizio provvisorio dell’impresa, pena la possibilità di dovere affrontare ingenti spese di procedura con grave danno ai creditori.
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